Repubblica 3.11.15
“Cambio, dunque sono” Il testamento di Deleuze
Vent’anni fa il suicidio del filosofo che più di ogni altro ha incarnato lo spirito del ’68. E che ha vissuto come un personaggio di Beckett
di Antonio Gnoli
Deleuze è morto vent’anni fa. Riverso su un marciapiede che lo accolse dopo un volo di trenta metri. Nessun biglietto per i posteri che ne giustificasse il senso. La fece finita con se stesso. Dopotutto, se l’Esserci era gettato nel mondo, secondo la celebre dicitura heideggeriana, Deleuze gettò se stesso dalla finestra. Non so quanto se ne possa ricavare dal confronto tra i due pensatori. Coglie perfettamente Giorgio Agamben, nel testo “L’esausto”: Heidegger fu una sua bestia nera. (“L’esausto” esce ora per Nottetempo con una bella introduzione di Ginevra Bompiani e un testo appunto di Agamben).
Capitava che Deleuze scrivesse commenti a testi letterari: Kafka, Melville, Proust, Carroll. Ne L’esausto riversa l’attenzione su Beckett. Colpisce questa frase enigmatica: «I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo, hanno troppo da fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere». Verrebbe da commentare che i personaggi di Beckett sono talmente impegnati sul nulla da restarne stremati. Si muovono entro geometrie rigorose e astruse (quelle di Riemann) con una feroce e bizzarra dissoluzione del loro repertorio umano.
Deleuze distingue tra esser stanco e esausto. La stanchezza può ancora trovare nuove energie. Essa non rinuncia ai bisogni, alle preferenze, agli scopi, ai significati, come invece fa l’esausto. Quest’ultimo mette fine al possibile. Si potrebbe in qualche modo riassumere così: la stanchezza è una categoria del tempo sociale che si rigenera. L’esausto è una categoria del tempo filosofico che muore.
Ma a quale filosofia si richiama Deleuze? Non c’è nulla, o quasi, nel suo pensiero che riconduca all’esperienza ordinaria (di qui la concettualità spesso paradossale ed enigmatica). Il compito dello storico della filosofia — ammesso che sia ancora una figura spendibile — non è di inanellare, come una narrazione ininterrotta, un’epoca dietro l’altra. «Lo storico — osserva opportunamente Rocco Ronchi (in Gilles Deleuze , Feltrinelli) — non racconta la filosofia, ma ne riattiva ogni volta la dimensione problematica e agonistica».
Si è sostenuto che il pensiero di Deleuze sia stato la più adeguata e interessante forma filosofica riconducibile al Sessantotto. Un testo come L’anti- Edipo — pubblicato nel 1972, in collaborazione con Felix Guattari — è stato, pur dentro i sofisticati intrecci psicoanalitici, il tentativo di cogliere la grandiosa empiria di quella stagione. L’impossibile che si rendeva possibile. Contro l’idea che l’assoluto si potesse porre solo all’esterno del reale, Deleuze immaginò un’assolutizzazione dell’esperienza. Ai suoi occhi, la metafisica non aveva mai creduto nella realtà. La divorò senza mai digerirla.
Deleuze, da empirista estremo, vide dunque nel reale (nel suo caos e disordine, nella sua vocazione anti-istituzionale) una via di uscita alle difficoltà della vecchia filosofia. Ma il reale non è una somma di fatti interpretabili che di volta in volta si isolano, o si mettono in relazione. Come ad esempio crede il pensiero scientifico. Il reale è un insieme di processi, di atti che compongono il tessuto stesso dell’esperienza. Noi, dice Deleuze, siamo dentro questa esperienza, ne prendiamo parte non già come soggetto che la costruisce, la orienta, la guida e infine ne ricava una sintesi conoscitiva. Esperienza è semplicemente divenire delle cose e di coloro che vi sono immersi. È un flusso (pensò lo stato liquido molto prima di Bauman) Il divenire ci precede e resiste a ogni tentativo di ingabbiamento o di codifica. È l’idea che Deleuze ebbe dell’immanenza.
Si potrà obiettare che in questa maniera Deleuze rinunciò alla condizione con cui l’Occidente ha guardato alla conoscenza. Ossia alla costruzione di un sapere che si serve dell’esperienza, ma in qualche modo la trascende. Ma se non potrò conoscere per quella via praticata da larga parte della filosofia, come posso dispormi di fronte al grande tema della verità? Chi sarò mai io rispetto al mondo? Deleuze avrebbe potuto replicare che non c’è una grande verità (non sarebbe il primo a dichiararlo). Ciò che questo filosofo complicato, difficile, sovente astruso ci dice è che la conoscenza non è il risultato di un superamento tra due opposte realtà. Non si nega la realtà per poi riassumerla in un contesto più nobile. La filosofia non procede per opposizione ma per variazione.
Mi pare anche qui utile il richiamo che Ronchi fa a Glenn Gould e alle Variazioni Goldberg .
Secondo il grande interprete di Bach le variazioni seguono un movimento radiale e non lineare, percorrono una circonferenza e non una retta. Non c’è una successione secondo un prima e un dopo, del tipo: accade un fatto e lo racconto. Il filosofo non è lo storico che parla dell’accaduto. Il filosofo è colui che è nell’accadere. Lo storico segue la linearità dell’accaduto ( causa ed effetto); il filosofo, per Deleuze, si colloca nell’evento. Non ha un inizio né una fine. Sta nel mezzo di qualcosa che è già stato detto e che si può solo ripetere.
Cos’è che si può ripetere? Conosciamo l’espressione: è stato detto tutto. Ma come si fa a essere originali su qualcosa che è già stato detto? L’interprete della vita, secondo Deleuze, non deve pensare secondo scansioni temporali (per fasi successive) ma come se si muovesse su dei piani. Il concetto di “piano” riveste un’importanza cruciale. Il piano non è una linea, non è una successione di fatti, ma una contemporaneità, un campo di forze, un’immanenza che coinvolge le più diverse esperienze vitali: dalla filosofia alla letteratura, dal cinema al teatro.
Deleuze ha letto il pensiero filosofico ad altezze spesso vertiginose. Ne ha imitato, più che interpretato, la voce. Platone, Spinoza, Leibnitz, Nietzsche, Bergson e Marx (al quale da ultimo stava lavorando) sono stati alcuni snodi del suo cammino.
Come pure appaiono fondamentali i confronti con Hyppolite, Blanchot, Foucault, Klossowski, Lacan. E sul piano teatrale quello con Artaud e poi Carmelo Bene. Se c’è un filo che tiene insieme questo orizzonte di pensiero è la rivendicazione di un punto di vista “minore”. Si potrebbe dire che una tale scelta operi in funzione della marginalizzazione di un pensiero che non offre mai un’ultima parola, bensì sempre la penultima. Per Deleuze tutte le lingue e i pensieri “maggiori” — i grandi sistemi filosofici per esempio — hanno cercato un approdo definitivo. Una parola ultima. Ma in realtà non c’è lingua o pensiero che non sia straniero (non a caso privilegiò il significante sul significato). È come se ogni volta il filosofo — che non è più la coscienza del mondo — debba nuovamente imparare a parlare una lingua che non conosce più. Balbetta. Borbotta. Bofonchia. Come i personaggi di Beckett. Creature “minori”. Sorprese a vivere sui bordi della Storia, quando la Storia è già tramontata.