Repubblica 29.11.15
I protagonisti
Omicidi politici e voglia d’impero Erdogan-Putin rivali fotocopia
Il sultano e e lo zar sono troppo simili per poter andare d’accordo. Entrambi nostalgici del loro grande passato Quello ottomano e quello russo
Il loro codice di comportamento, interno e internazionale, è la legge del taglione Non bisogna essere Freud per intuire che non possono amarsi due populisti e nazionalisti
Il leader turco Recep Tayyip Erdogan ha commentato ieri il delitto dell’avvocato dei diritti umani Tahir Elçi definendolo gelidamente un “incidente che mostra quanto sia nel giusto la Turchia nella sua lotta determinata contro il terrorismo curdo”
di Paolo Garimberti
SONO la fotocopia uno dell’altro, Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Vladimirovic Putin. Troppo uguali, caratterialmente e politicamente, per andare d’accordo. Troppo arroganti e fieri per mostrare cedimenti, ancor meno pentimenti.
Leggiamo che cosa ha detto Erdogan per tentare di smorzare la tensione dopo l’abbattimento del Sukhoi SU-24 russo: «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo. Spero che una cosa del genere non accada più». Come se si fosse trattato di uno sfortunato caso del destino in una partita comunque sporca. Manca vistosamente la parola dispiacere per la morte di un essere umano, ancorché militare, ancorché combattente. Figurarsi le scuse, parola ignota al lessico di Erdogan. Come a quello di Putin, peraltro: un sultano e uno zar non si scusano.
Il loro codice di comportamento, interno e internazionale, è la legge del taglione. Alla gelida dichiarazione di Erdogan Putin ha risposto ufficializzando, con la firma di un decreto, una rappresaglia che era già in atto: un boicottaggio economico della Turchia. Il Cremlino si intende benissimo di queste cose, le ha provate a lungo con l’Ucraina, anche prima di annettersi la Crimea e invadere il Donbass con militari travestiti da miliziani volontari senza insegne e stellette.
Ieri l’assassinio, ancora avvolto in una nuvola di mistero, dell’avvocato Tahir Elci, il capo degli avvocati curdi di Diyarbakir, già imprigionato il mese scorso per aver sostenuto che il Pkk non è un’organizzazione terroristica, ha aggiunto un tocco di sinistra criminalità politica a questo gioco degli specchi. Morì misteriosamente, a due passi dal Cremlino, il 27 febbraio di quest’anno, anche Boris Nemtsov, uno dei più irriducibili oppositori di Putin. Per mano di un “sicario”, dissero gli inquirenti moscoviti. Le proteste di piazza (a Mosca i funerali furono una manifestazione politica, ieri a Istanbul ci sono stati incidenti) non hanno scalfito l’imperturbabilità dei poteri politici. Putin si dolse dell’omicidio di Nemtsov con molta misura, quasi con fastidio. Come ha fatto ieri Erdogan dopo la morte di Elci: lo ha chiamato «questo incidente ». Un sultano e uno zar non hanno pietà per i loro avversari politici. E non se ne curano: ci pensano “altri” a sistemarli.
Quando non sono “sicari” destinati a restare anonimi, sono i giudici a fare da longa manus del potere. In Russia finì in galera Mikhail Khodorkhovskij, il magnate del gas che si era messo di traverso con la forza della sua immensa ricchezza ai giochi di Putin; e poi, dentro e fuori, tra carcere e arrestri domiciliari, toccò ad Aleksej Navalny.
In Turchia, appena due giorni fa, i giudici hanno incriminato Can Dundar, il direttore del quotidiano Cumhuriyet, e il capo dell’ufficio di Ankara, accusandoli di terrorismo e di spionaggio. È lo stesso giornale che a maggio aveva documentato i giochi ambigui di Erdogan in Siria, fotografando tra l’altro le forniture di armi ai ribelli turkmeni, gli stessi che, guarda caso, hanno sparato ai piloti russi del Sukhoi abbattuto mentre scendevano con il paracadute. Basta ricordare l’uccisione di Anna Politkovskaja, nel 2006, per sottolineare che i giornalisti indipendenti sono poco graditi in Russia come in Turchia, che peraltro oggi è ancora più illiberale della Russia secondo la classifica di Reporter senza frontiere.
Una fotografia del novembre 2005 mostra Erdogan, Putin e Silvio Berlusconi (l’unico oggi fuori servizio effettivo) con la mani incrociate, come i vincitori su una coppa appena conquistata, alla cerimonia per il gasdotto Blue Stream. Era il suggello di quella che sembrava un’amicizia, umana oltre che politica, destinata a durare a lungo e cementata da una solidissima cooperazione economica.
Ancora a dicembre Erdogan aveva srotolato il tappeto rosso per la visita di Putin nel suo nuovo palazzo presidenziale da 600 milioni di dollari ad Ankara. In realtà gli interessi economici nascondevano quella che un diplomatico turco, che aveva assistito ai colloqui tra i due, aveva definito «una forte antipatia reciproca ».
In fondo non bisogna essere Freud per intuire che non possono amarsi due populisti, nazionalisti, nostalgici degli Imperi che furono (il Russo e l’Ottomano), marziali nella testa e maschilisti nel “body language”, forti di consensi popolari che non sono minimamente scalfiti dalla loro scarsa propensione per la democrazia (i sondaggi danno Putin trionfante ad ogni rilevazione, così come le elezioni del 1 novembre hanno dato a Erdogan una chiara e netta maggioranza).
La Siria ha aggiunto all’antipatia personale una rivalità politica, che è diventata acuta nel momento in cui, dopo i tragici eventi parigini, Erdogan ha visto un progressivo cambiamento di umori e di linea, da parte di governi ma anche dei maggiori osservatori di politica internazionale, nei confronti dell’intervento militare di Putin contro gli islamisti di Daesh. E certo non ha migliorato i rapporti il duro intervento di Putin al tavolo del recente G20, proprio a Antalya in Turchia, quando ha accusato alcuni dei Paesi seduti attorno al tavolo di finanziare e armare i macellai dell’Is. Non si pecca di eccesso di malizia, o di dietrologia, a pensare che l’abbattimento del Sukhoi sia un incidente cercato, perfino desiderato. «Alla fine della fiera - ha scritto proprio Aleksej Navalny nel suo blog - sono entrambi soddisfatti. E’ solo un peccato per il pilota. Per che cosa è morto?».