mercoledì 25 novembre 2015

Repubblica 25.11.15
Lo strano caso di Einstein e il suo doppio
Cent’anni fa la teoria della relatività generale rivoluzionò la nostra visione del mondo. Ma oggi il suo autore è visto come icona pop: ecco il confine tra scienza e storytelling
di Giovanni Amelino-Camelia


Esattamente cento anni fa, il 25 novembre 1915, in una presentazione per la Prussian Academy of Sciences, Einstein annunciò pubblicamente le equazioni fondamentali della sua teoria della Relatività. In realtà i festeggiamenti di questo anniversario hanno costellato tutto il 2015 e continueranno anche nel 2016, visto che il 20 marzo del 1916 Einstein scrisse l’articolo di una cinquantina di pagine che riportava la derivazione delle sue equazioni e alcune delle loro conseguenze più importanti. Un happening di quasi due anni per celebrare un risultato che ha rivoluzionato la nostra comprensione dello spazio, del tempo e dei fenomeni gravitazionali. Questa ansia celebrativa non nasce solo dalla forza della teoria ma anche dal fascino del suo creatore. Nasce da Einstein e dal suo doppio.Lo scienziato e l’icona pop, il fisico che studiava le orbite di Mercurio e la beautiful mind a cui, secondo la favola bella, bastò vedere cadere un imbianchino per avere l’intuizione illuminante. Proprio grazie al suo doppio Einstein è l’eccezione, il fisico amato da tutti. Un’icona fatta anche di linguacce e capelli arruffati che confortano i nostri stereotipi sul grande scienziato brillante e creativo, svampito e stravagante. Tanto che la curiosità per lui raggiunge spesso livelli morbosi. Mi è capitato persino di inciampare in dettagliate ricostruzioni dei suoi innamoramenti, il divorzio, la cugina che fu sua seconda moglie ed anche l’affascinante spia russa per cui poi perse la testa. Una biografia avventurosa degna di un divo. Eppure, oggi, è giusto raccontare anche l’altro Einstein, quello che con uno sforzo intellettuale durato circa dieci anni arrivò finalmente a formulare il suo capolavoro, appunto la Relatività Generale, applicando rigorosamente il metodo scientifico, il metodo galileiano di investigazione della Natura. Quell’Einstein è meno divertente, non offre molti pretesti per cartoline a effetto o citazioni da riportare su una maglietta, ma è quello che ha dato un contributo straordinario alla nostra comprensione della Natura.
Rendere conto di tutti i modi in cui la Relatività Generale ha rivoluzionato la nostra descrizione dello spazio, del tempo e dei fenomeni gravitazionali richiederebbe pagine e pagine. Scelgo quindi di concentrarmi sull’aspetto a me più caro, quello della azione della materia sulla geometria dello spaziotempo. Fino a quel 1915 lo spazio e il tempo erano visti come un’arena immutabile, un’entità statica. Lo spaziotempo aveva un ruolo nella descrizione della materia (appunto il ruolo di arena per il moto dei corpi) ma non era stato ancora teorizzato nessun modo in cui la materia potesse agire sulla struttura dello spaziotempo.
Ora sappiamo per certo, confortati dal secolo di successi sperimentali ottenuti dalla Relatività Generale, che invece lo spaziotempo ha una sua dinamica. In particolare, la materia curva lo spaziotempo. Ad esempio l’attrazione gravitazionale tra Sole e Terra non può essere descritta davvero come l’esito di una “forza”, ma piuttosto va descritta in termini di come il sole curva lo spaziotempo e come poi in presenza di quella curvatura il moto naturale della Terra prende l’aspetto di una attrazione verso il Sole.
Una popolare illustrazione di questa proprietà dei fenomeni gravitazionali è replicabile con facilità. Basta tenere ben teso un telo piuttosto grande e piazzare sul telo una sferetta, poco pesante, in posizione periferica rispetto al centro del telo. In prossimità del punto in cui viene messa la sferetta il telo si curva un po’ ma la sferetta resta ferma, se è l’unico corpo poggiato sul telo. Se poi si piazza al centro del telo una sfera più grande e più pesante si osserva prima di tutto che quella massa più grande produce maggiore curvatura del telo ed inoltre, a causa di quella grande curvatura, la piccola sferetta si mette naturalmente in moto, cadendo sulla sfera più pesante.
Nel celebrare questa teoria rivoluzionaria mi piace ricordare come, nel complesso percorso logico che portò Einstein alla sua scoperta, fu importante un’osservazione condotta secondo il metodo scientifico galileiano. Prima della Relatività Generale la descrizione dei fenomeni gravitazionali era affidata alla teoria di Newton. Ma già dalla metà dell’Ottocento per la gravità newtoniana era cominciata una fase di crisi. Essendo stati raggiunti buoni livelli di precisione per le misurazioni dell’orbita di Mercurio si era infatti constatato che gli esiti di quelle osservazioni non si conciliavano con la gravità newtoniana. Il disaccordo era piuttosto piccolo, ma la qualità dei dati sperimentali era tale da renderlo significativo. Durante il decennio di studi preparatori alla Relatività Generale quei numeri furono preziosi. Einstein aveva capito che la nuova teoria dei fenomeni gravitazionali doveva essere in accordo con le osservazioni sull’orbita di Mercurio, così quando finalmente trovò una teoria che dava la corretta descrizione dell’orbita di Mercurio — la sua Relatività Generale — si convinse di essere sulla strada giusta.
Eppure sono sorprendentemente frequenti le rivisitazioni della Relatività Generale in cui tutto ciò viene ignorato ricamando invece su quell’episodio in cui Einstein vide un imbianchino cadere da un palazzo. Una visione molto romantica, in cui Einstein diventa “vittima” del suo doppio, perché questa versione alimenta il mito dell’icona pop. Ma in realtà, anche se è poco poetico ripeterlo, più dell’imbianchino contò l’orbita di Mercurio. Celebriamo i cento anni della più grande scoperta fatta da Einstein, ma è importante vederla, soprattutto, come una delle più grandi conquiste ottenute grazie al metodo scientifico.
(L’autore, docente alla Sapienza, è uno dei più noti studiosi di Gravità Quantistica)