Repubblica 25.11.15
Quei monaci che inventarono il mito di Re Artù
La loro abbazia era bruciata in un incendio nel 1184, e servivano denari per ricostruirla
Un gruppo di studiosi britannici ha scoperto che i benedettini di Glastonbury crearono la leggenda per attirare pellegrini
di Enrico Franceschini
LONDRA È IL re d’Inghilterra forse più noto, il cui nome evoca un mondo da favola: la spada nella roccia, il regno di Camelot, il mago Merlino, i cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto, la bella Ginevra. Ma, a quanto pare, la leggenda di
king Arthur, come lo chiamano gli inglesi, o di re Artù, come diciamo in Italia, fu inventata dai monaci benedettini di Glastonbury, dopo che la loro abbazia bruciò in un incendio, come mezzo per attirare pellegrini e con essi il denaro per ricostruirla.
Lo rivela un’indagine lunga 4 anni e condotta da un gruppo di una trentina di storici e studiosi britannici, guidati da Robert Gilchrist, docente di archeologia della Reading University, che hanno esaminato reperti di scavi effettuati nell’area decenni or sono e mai analizzati prima.
La presunta tomba di Artù risulta essere stata nient’altro che un buco nel terreno, in cui nessuna bara o corpo furono mai calati, per la semplice ragione che non ci sarebbero neanche entrati. Non solo: gli scienziati hanno trovato le prove che, dopo il rogo del 1184, i monaci ricostruirono deliberatamente una chiesa di legno in stile arcaico per farla apparire molto più antica, nel tentativo di dare credito al mito che fosse stata la prima chiesa cristiana in Inghilterra. Rivelazione che abbatte pure un’altra leggenda, ancora più grande: quella secondo cui i piedi di Gesù Cristo in persona si posarono su un simile luogo, portato da suo zio Giuseppe di Arimatea quando era bambino a bordo di una nave fenicia.
Dal bastone piantato da Giuseppe sul posto sarebbe nato un albero che ancora fiorisce e ogni anno a Natale un suo ramoscello viene inviato in dono alla regina Elisabetta. Ora gli storici affermano che è tutto falso, scrive il Times di Londra, facendo crollare tra l’altro l’ispirazione di “Jerusalem”, il poema di William Blake considerato da molti una sorta di inno nazionale inglese: il titolo originale, And did those feet in ancient times (E davvero quei piedi in tempi antichi), si riferisce appunto al presunto viaggio a Glastonbury compiuto in tenera età dal Nazzareno, visto come atto di fondazione di una “nuova Gerusalemme”. Ovvero l’Inghilterra odierna. Che questa fosse una storia apocrifa era da tempo l’opinione dominante: ma ciò non ha impedito che Glastonbury e i resti del suo monastero attirassero masse di fedeli. E non solo di fedeli, perché oggi la zona è diventata uno dei principali punti di riferimento del movimento New Age, convogliando nella placida campagna del Somerset i seguaci delle discipline esoteriche. La stessa cosa accadde 10 secoli fa, quando lo stratagemma dei benedettini servì allo scopo, portando a Glastonbury non solo i soldi per ricostruire l’abbazia ma facendone il secondo monastero più ricco di tutta l’Inghilterra.
Se Artù sia stato un re o un capoclan, se si chiamasse proprio così, se sia veramente esistito e in che periodo, è sempre stato un mistero. La scoperta degli archeologi inglesi lo colloca con più sicurezza nel novero delle leggende, ossia delle fiabe. In fondo, senza l’invenzione degli scaltri monaci, non ne avremmo mai avuta una meravigliosa come quella del piccolo Semola che estrae Excalibur dalla roccia per diventare re Artù.