Repubblica 20.11.15
Perché l’IS non deve cambiarci la vita
Sembra una super potenza ma ha già perso il 25 per cento del territorio
di Alexander Stille
QUANDO ho sentito il presidente francese François Hollande e i maggiori politici francesi ripetere che dopo la strage terroristica di Parigi la Francia è “in guerra” era difficile non pensare all’11 settembre. E non andare con la mente alla risposta dell’allora presidente George W. Bush, a quella “guerra al terrore” che ci ha portati prima in Afghanistan e poi in Iraq. Proprio l’invasione dell’Iraq ha destabilizzato la regione portando, tra altre cose, la nascita di Is.
Dopo Parigi anche qui a New York assisto a scene che richiamano, sia pure in scala minore, ciò che accadde dopo l’11 settembre. Vedo due giovani americani che hanno dipinto i colori della bandiera francese sotto i loro occhi, come se stessero piangendo lo spirito nazionale francese. Molti ricordano la risposta francese agli attacchi alle torri gemelle (“Nous sommes tous américains”) e oggi rispondono nello stesso modo. Dimenticano ciò che accadde quando la Francia espresse tutte le proprie riserve all’invasione dell’Iraq, fino al punto di ribattezzare le “French fries”, le patatine fritte, “Freedom fries”, in risposta alle critiche francesi.
Oggi, la gran parte degli americani che eleggono Parigi come prima destinazione all’estero riconoscendone la supremazia culturale, vivono l’eccidio del weekend scorso come una perdita personale.
Ne sono anche testimone diretto: ricevo molte mail accorate di americani che sanno che ho vissuto a Parigi: mi scrivono per chiedermi se i miei amici francesi sono sani e salvi e per esprimere tutto il loro sgomento. Si sentono così coinvolti che una mia amica arrivata da Parigi non ha potuto fare a meno di notare che «quasi, quasi degli attacchi si parla più qui che a Parigi».
Con la tendenza molto americana di affrontare le cose in chiave religiosa ha spopolato per strada e in Rete lo slogan “Prayfor-Paris”. Rispedito al mittente, con un’affermazione di laicismo, da uno degli illustratori di Charlie Hebdo. Ma questa impronta religiosa nel leggere i fatti di Parigi è molto radicata. Mi è capitato di leggere anche commenti come questo: «La gente si disputa la realtà di Dio ma Satana ha dimostrato certamente la sua esistenza e i suoi propositi sanguinari ». La partecipazione emotiva, anche fuori dalle grande città è molto forte. Su alcune televisioni locali campeggia a caratteri cubitali lo slogan “Guerra al terrore”.
L’interrogativo prevalente a tutti i livelli è: cosa si può fare?
Tanto più che l’offensiva terroristica cade in piena campagna elettorale sia in Francia che negli Stati Uniti.
In Francia, Hollande propone di riscrivere la costituzione, dando più poteri allo Stato, mentre Sarkozy, che vorrebbe tornare al potere, propone di chiudere delle moschee e mettere dei braccialetti elettronici agli estremisti islamici.
In America, l’ex-candidato repubblicano del 2012, Mitt Romney, dice che bisogna invadere la Siria, mentre alcuni candidati hanno detto che gli Usa dovrebbero accogliere solo profughi di origine cristiana e non quelli islamici. Vari governatori repubblicani hanno detto che non apriranno le porte ai rifugiati siriani (ignorando che sono le prime vittime dell’Is). Il palazzinaro- candidato Donald Trump ha rivendicato: «Quando ho detto di bombardare le installazioni di petrolio controllate dall’Is hanno riso, oggi lo stanno facendo».
Solo Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese al momento della crisi irachena ha avvertito il pericolo per la Francia di entrare nella sindrome da guerra: «Se una banda di assassini fanatici vi dichiara guerra non vuole dire che bisogna cadere nella trappola di fare altrettanto».
Un mio amico francese, tra l’altro molto vicino ai socialisti francesi, mi dice che Hollande e il suo governo, cercano di sviare l’attenzione dai propri errori, notando non a caso che «non c’è stata nessuna inchiesta parlamentare dopo la strage a Charlie Hebdo». Era stata ridotta la protezione alla redazione poco prima del raid di gennaio, nonostante la Francia avesse già iniziato a bombardare le postazioni dell’Is in Iraq. «Nessuno ha previsto una possibile risposta?», si chiede il mio amico Patrick. E aggiunge un ulteriore elemento: sia i fratelli Kouachi — tra gli autori della strage di Charlie Hebdo — che alcuni dei terroristi di venerdì scorso erano schedati dalla polizia francese sulla famosa “lista S” dei sospettati terroristi.
Il potere del terrorismo è la sua natura asimmetrica: la capacità di poche persone di guadagnare un’influenza sugli eventi completamente sproporzionata ai loro numeri. Un terrorista serbo, uccidendo l’arciduca Franz Ferdinand ha iniziato la prima guerra mondiale. Gli otto (per ora) terroristi dell’Is stanno per cambiare la vita ad una nazione di 60 milioni e forse al resto dell’Europa, proprio come i 15 fanatici dell’11 settembre hanno cambiato gli Usa.
Già adesso, sta morendo il sogno della nuova Europa, un continente libero e aperto. I francesi (comprensibilmente) hanno ristabilito i controlli alla frontiera con il Belgio visto che alcuni degli uomini e le armi per gli attacchi di Parigi venivano da lì.
Ricordo un mio viaggio da Parigi in Olanda due anni fa: la piacevole sorpresa di andare dalla capitale francese a Rotterdam su un treno superveloce. Passare per delle terre impregnate dal sangue di innumerevoli guerre europee attraverso i secoli in due ore e mezzo con solo un controllo dei biglietti sembrava un piccolo miracolo. Ma già da quando i terroristi hanno tentato di sparare sul treno Thalys e gli ungheresi e i polacchi si rifiutano di prendere i rifugiati siriani, quel sogno sta finendo.
L’Is, sulla scia delle sue ultime imprese — la bomba in Libano, l’attacco rivendicato contro l’aereo russo in Egitto e gli attacchi di Parigi — sembra una superpotenza mondiale. Ma in realtà è molto più debole di quanto sembri. E ha perso circa il 25 per cento del proprio territorio negli ultimi mesi. Per questo bisogna continuare e intensificare gli attacchi contro l’Is, sostenendo i suoi nemici locali ma evitando una nuova occupazione dell’Iraq e della Siria.
Bisogna applicare le leggi esistenti sul terrorismo, dedicandovi più risorse ma senza stravolgere le nostre democrazie e lo stato di diritto.