venerdì 20 novembre 2015

Repubblica 20.11.15
La sicurezza.
Otto persone su dieci ritengono che l’attacco non riguardi solo la Francia. “Chiudere le frontiere”
“Gli attentati di Parigi minacciano anche noi” un italiano su due è pronto a cambiare stile di vita
di Ilvo Diamanti


Cresce la disponibilità a limitare alcuni diritti, ma non il timore su Islam e immigrati
Il sondaggio è stato realizzato da Demos & Pi per La Repubblica, con il contributo di Intesa Sanpaolo. La rilevazione è stata condotta nei giorni 16-18 novembre 2015 da Demetra. Il campione nazionale intervistato (N=1.010, rifiuti/sostituzioni 9.970) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3.1%)

I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno emozionato e coinvolto anche noi. In Italia. Non si tratta di un effetto preterintenzionale. Al contrario. La scelta dei luoghi, delle vittime, la stessa rappresentazione dei massacri rivelano una evidente intenzione – e capacità – di colpire “nel mucchio”. Molti bersagli “umani”. Molti giovani. Ma anche di lanciare messaggi. Di trasferire paure, inquietudini, ben oltre i confini di Parigi e della Francia. Fino a noi. Paese confinante. Dove ha sede il Vaticano. Dove i flussi migratori dal Nord Africa continuano, incessanti. Lo conferma il sondaggio condotto da Demos per Repubblica, nei giorni scorsi. Certo, la maggioranza degli intervistati (50%) vede negli attentati una “punizione” contro la Francia, colpevole di partecipare ai bombardamenti in Siria e in Iraq. Più di quanti (40%) lo considerano, invece, un avvertimento, contro luoghi e riti del consumismo occidentale. Tuttavia, oltre 8 italiani su 10 ritengono che questo attacco non abbia implicazioni solamente “francesi”. Ma riguardi, al contrario, anche noi.
Oltre metà delle persone (intervistate) ammette di sentirsi preoccupata per l’eventualità di atti terroristici. Con un aumento di 14 punti, nell’ultimo anno, e di circa 20 rispetto al 2010. Gli effetti sul clima d’opinione risultano evidenti. Anzitutto, sul piano dell’in-sicurezza, che appare diffusa.
Componenti ampie della popolazione (meglio: del campione) pensano, infatti, che oggi convenga adottare comportamenti prudenti. Più che in passato. In particolare, il 46% ritiene opportuno evitare di partecipare a manifestazioni ed eventi pubblici. Il 43%: di viaggiare all’estero. Il 38%: di prendere l’aereo. Si tratta, perlopiù, di persone più anziane e meno istruite. Che, comunque, sono meno disponibili a mobilitarsi e hanno minore confidenza “con il mondo”. Ma il segnale è chiaro. L’insicurezza sta penetrando nella società. E spinge le aree “periferiche” – dal punto di vista sociale ma anche territoriale (i piccoli comuni di provincia e le banlieue metropolitane) a chiudersi in casa. A guardare gli altri con diffidenza. Quasi 4 persone su 10, infatti, oggi percepiscono gli immigrati come “un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone”. E si rivolgono all’Islam con atteggiamento diffidente. La scia di sangue lasciata dalle aggressioni criminali avvenute a Parigi, dunque, è arrivata fin qui. E ha alimentato, presso gli italiani, l’inquietudine. Ha allargato le distanze, meglio, il distacco fra noi e gli altri. Percepiti come possibili minacce. Nemici.
Così, il trattato di Schengen, che ha “aperto” le frontiere, reso più facili le comunicazioni e i movimenti personali, diviene un problema. Un rischio. E insieme alle porte di casa diventiamo più disponibili a chiudere anche le frontiere. Anche se “temporaneamente”. È un provvedimento auspicato dal 56% degli intervistati.
Al tempo stesso, come avviene quando la paura penetra fra noi, diventiamo meno esigenti, sotto il profilo dei diritti e delle nostre libertà. Così, oltre 9 italiani su 10 si dicono disponibili ad aumentare la sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso telecamere. Mentre quasi la metà di essi (per la precisione: il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità il controllo sulle nostre comunicazioni. Dalla posta elettronica alle telefonate. Quasi 20 punti in più, rispetto al 2009. In altri termini, i fatti di Parigi hanno accentuato la sindrome d’assedio, cresciuta negli anni della crisi. Alimentata dalla globalizzazione che ci espone, emotivamente, a ogni evento drammatico, che avvenga altrove. Anche lontano. È come se fosse qui. A maggior ragione quando si tratta di una “città esemplare”, come Parigi. Destinazione degli itinerari da tutto il mondo. Per motivi turistici, di studio e di lavoro. Tanto più da qui. Dall’Italia. Affacciata ai confini. Per questo colpire Parigi significa colpire l’Europa, di cui è il centro. Un Centro strategico e attraente. Per questo colpire Parigi ha un impatto rilevante, sui nostri sentimenti. Per questo rischia di diventare un ostacolo, ulteriore, alla costruzione europea. All’integrazione politica, culturale.
Eppure, evidenziare quanto gli attentati di Parigi abbiano cambiato il nostro modo di guardare gli altri e noi stessi, non basta. Potrebbe perfino essere deviante. Se non aggiungessimo che, nonostante tutto, la paura non è sfociata in panico. La diffidenza non è degenerata in distacco, segregazione.
La percezione negativa nei confronti dell’Islam, come religione e comunità, infatti, non ha cambiato misura, nell’ultimo anno. Nonostante tutto. E oltre 7 italiani su 10 pensano che le responsabilità delle violenze di Parigi siano da attribuire a una “frazione di integralisti”. Solo una minoranza le riconduce all’Islam, come tale. L’insicurezza suscitata dall’immigrazione, inoltre, è elevata. Ma non è cresciuta molto, negli ultimi mesi. Rispetto allo scorso giugno è perfino calata. Ed molto più bassa, in confronto all’autunno 2007, quando la campagna mediale preparava quella elettorale. Scandita – e decisa dalle “paure”.
Ci muoviamo, dunque, in una terra instabile, lungo il confine mobile fra diverse destinazioni. Diverse soluzioni. Marcate da diversi livelli di in-sicurezza, apertura e - reciprocamente - chiusura. Verso le altre persone, le altre religioni. Verso gli altri Paesi. E ciò tende a estremizzare i sentimenti personali, i rapporti con gli “altri”, ma anche gli orientamenti politici. Così, si allargano gli spazi per gli “imprenditori politici della paura”. Che fanno dell’insicurezza e della sfiducia una risorsa da investire sul mercato politico. Insieme alla disponibilità verso i controlli. Sui comportamenti degli altri, ma anche sulle nostre relazioni. Sulla nostra vita personale. Da “sorvegliati speciali”, a tempo pieno. Si tratta di capire se l’unica strada possibile sia questa. Rassegnarsi a uno “stato di emergenza” permanente. Fino a diventare ostaggi di se stessi. Di noi stessi.
Significherebbe cedere alla logica del terrore. In fondo, arrendersi ai terroristi.