Repubblica 17.11.15
Scatta la corsa a imbottigliare il prezioso oro liquido delle vette oltre i 5mila metri
Cina-Tibet la contesa dell’acqua
di Giampaolo Visetti
PECHINO I ghiacciai himalayani si sciolgono e in Cina si profila una nuova guerra per l’acqua. Dopo il business delle dighe, grazie al global-warming Pechino scopre l’affare del secolo: l’imbottigliamento dell’acqua che scorga dalle vette più alte della terra. Negli ultimi vent’anni il Paese è diventato il primo produttore e il primo consumatore del mondo di acqua imbottigliata. Da prodotto di lusso, l’acqua minerale è entrata nelle case della crescente classe media. Status-simbol, ma prima ancora inevitabile necessità: nella nazione più inquinata del pianeta, appena lasciata l’alta quota, l’acqua potabile non esiste più e quella che sgorga dai rubinetti delle metropoli non può essere usata neppure per lavare gli alimenti.
L’industria delle bevande sale così sempre più su, oltre gli altopiani dell’antico Tibet, sopra quota 5mila. Le ultime miniere dell’acqua potabile, in Cina, si trovano nel Qinghai, nello Yunnan, nello Xinjiang e nella regione che oggi ancora si chiama Tibet. Un tesoro sempre più ricco, su cui stanno mettendo le mani sia lo Stato che i privati. Lo scorso anno sull’Himalaya sono stati imbottigliati 153mila metri cubi d’acqua di ghiacciaio, entro il 2025 saranno oltre 10 milioni, già divisi tra 28 imprese. Un mercato che stuzzica l’appetito anche della Borsa di Hong Kong: nonostante la maggioranza dei cinesi non possa che bere acqua in bottiglia, il consumo pro capite resta un quinto inferiore rispetto alla media mondiale e gli investitori puntano su chi riesce a conquistare le concessioni delle sorgenti ai piedi dell’Everest. Non è un’industria ad alto impatto ambientale, come quella dell’energia, che con le dighe per produrre elettricità desertifica sconfinate regioni agricole. Il problema è che per garantire un rifornimento costante agli impianti di imbottigliamento, Pechino rinuncia a combattere il surriscaldamento atmosferico, a proteggere i ghiacciai da cui svettano i grandi Ottomila, o a riservare l’acqua potabile alle popolazioni locali. L’ultima acqua che in Cina l’uomo può bere scatena così una corsa simile a quella per l’oro e i governi regionali incassano montagne di soldi: negli ultimi 12 mesi i funzionari di Lhasa hanno guadagnato oltre 300 milioni di euro in provvigioni degli imbottigliatori, tra cui “Sinopec”, il colosso petrolifero di Stato che distribuisce le bottiglie di acqua “Tibet 5100” nelle 23mila stazioni di rifornimento carburante.
La protesta contro il «furto cinese dell’acqua» dilaga dunque nelle regioni che storicamente rivendicano la propria indipendenza, dal Tibet buddista allo Xinjiang musulmano, uniti nel denunciare lo sfruttamento di Pechino delle risorse che gli abitanti considerano proprie. L’Himalaya, noto come il “terzo Polo”, conserva la più ricca massa di acqua dolce della Terra. Negli ultimi trent’anni ha perso però il 15% del volume e se il surriscaldamento non verrà contenuto sotto 1,5 gradi, la regione è destinata a trasformarsi in un deserto entro fine secolo. Per scienziati, contadini e ambientalisti, la sete cinese di acqua potabile minaccia di rivelarsi l’ultima catastrofe. Pechino risponde che se il Tibet ha ancora ghiacci incontaminati, lo deve ai piani della protezione di Stato. Peccato che il permafrost himalayano si stia liquefacendo, sparendo nelle bottiglie spedite nelle megalopoli dei nuovi consumatori rossi. Chi resta in montagna, senza cibo né acqua, non ha scelta: emigrare nelle città che vendono il ghiaccio in bottiglia, prelevato nelle sorgenti ancora avvolte dall’aria sottile.