Corriere 17.11.15
Un inferno chiamato matrimonio
Il tormento narrato da Malamud
Nessuno scrittore americano ha mai esplorato meglio la sofferenza coniugale
di Giorgio Montefoschi
Bernard Malamud, uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso, per lunghi anni misconosciuto dalla critica e trascurato dal pubblico, al punto che i suoi libri non si trovavano in libreria e alcuni, addirittura (per esempio in Francia) non erano tradotti, morì il 18 marzo del 1986, dopo un brutto ictus che ne aveva fiaccato le forze e la memoria. Philip Roth — racconta Paolo Simonetti nella ottima introduzione al secondo Meridiano con il quale Mondadori conclude la pubblicazione dei Romanzi e racconti di Malamud — aspettò soltanto un mese. Elegantemente, in un ritratto uscito sul «New York Times» del 20 aprile, descrisse l’amico più anziano — tanto americano e tanto ebreo quanto lui (allora in grande ascesa) e Saul Bellow (premio Nobel nel 1976) — come «una sorta di assicuratore… un fragile vecchietto molto malato, la cui tenacia era quasi consumata», con l’aspetto «di un uomo che ha dovuto essere uomo troppo a lungo… uno scrittore che da anni non riusciva neanche più a ricordare la tavola pitagorica».
A questo schizzo di odio, dovuto forse a un desiderio oscuro di parricidio, o forse al sospetto che il «fragile vecchietto» fosse più bravo, rispose Saul Bellow — che già nella orazione funebre aveva speso consistenti elogi nei confronti di Malamud, definendolo «un creatore di miti, un narratore di favole, uno scrittore di parabole squisite» — con una lettera a Roth che per la sua intelligenza, e la leggerezza che posseggono solo i veri scrittori e non molti critici letterari, merita di essere riprodotta quasi per intero. Gli scrisse: «Tu all’inizio lo avevi paragonato a un assicuratore, mentre in privato io ho sempre pensato a lui come un commercialista; però in segreto nutro un debole per le qualità nascoste dei rappresentanti e dei commercialisti. Non sono mai riuscito a giudicare dalle apparenze, né ho mai avuto fede nelle categorie (le categorie sociali, intendo). Be’, lui ha saputo creare qualcosa dalle briciole e dalle scorie granulose di povere vite ebraiche. E poi ha sofferto per non essere riuscito a fare di più. Forse non avrebbe potuto, ma sperava in una buona vecchiaia, in cui l’impossibile diventasse possibile. La morte si è occupata di questa magnifica aspirazione; riguardo a ciò, possiamo contarci tutti».
Le vite di Dubin — tradotto da Monica Pareschi, al centro del secondo Meridiano — è uno dei tre grandi libri di Malamud (gli altri due sono Il giovane di bottega e L’uomo di Kiev ), e certamente il suo capolavoro. Un romanzo fluviale di 500 pagine, ambientato negli storditi Anni Settanta, scritto in modo magistrale. Sempre Roth, che evidentemente di Malamud aveva l’incubo, in un romanzo intitolato Lo scrittore fantasma lo aveva preso in giro, a proposito del suo metodo di lavoro, facendogli assumere i panni di un vecchio scrittore ebreo, E.I. Lonoff, che passava le sue giornate e la sua esistenza a prendere una frase, a girarla, a rigirarla, a cancellarla dopo una passeggiatina, a riscriverla di nuovo, a rifletterci sopra dopo il tè, a metterla vicino a un’altra, a girarle tutte e due da capo. Se questo è il metodo degli sfortunati scrittori che non posseggono la beata irruenza di Roth (ma Truman Capote stava a letto un pomeriggio intero, indeciso fra una virgola e un punto e virgola), bisogna riconoscere che, soprattutto per quanto riguarda Le vite di Dubin , si tratta di un metodo ottimo. Certo, come Lonoff, deve aver faticato immensamente Malamud a reggere quella prosa per 500 pagine. Ma che prosa: avvolgente, piana, senza un momento di stanchezza, mossa da dialoghi che entrano ed escono a perfezione.
William Dubin, 56 anni, ebreo non praticante, i capelli brizzolati, una discreta pancetta che cerca di contenere correndo nei boschi attorno a Center Campobello, il paese di 4.600 anime al confine fra lo Stato di New York e il Vermont in cui vive insieme a sua moglie Kitty, fa di professione il biografo: si interessa alle vite degli altri. Per esempio, alle vite di Abraham Lincoln, di Mark Twain, di H.D. Thoreau, l’autore di quel celebre inno alla natura e a una esistenza primitiva che è Walden . Attualmente, combatte con la biografia di D.H. Lawrence, l’autore dell’ Amante di Lady Chatterley , di Figli e amanti . È un libro piuttosto difficile. Infatti, dopo le migliaia di pagine già scritte, cos’altro si può scoprire di questo romanziere inglese acceso dalla fiamma dell’eros, poi impotente, tormentato dal suo complicato rapporto matrimoniale? Scrutandosi nello specchio, parlando a voce alta tra sé e sé (e per questo irritando Kitty), Dubin se lo domanda continuamente. Non sa darsi una risposta. L’unica, è mettersi metodicamente al lavoro; passeggiare; togliere le erbacce dal giardino; prendere un tè; rimettersi al lavoro.
Kitty (che una volta, diciamo spassionatamente, ha consigliato a William di scrivere delle biografie che facciano ridere) è una brunetta cinquantenne, ancora abbastanza attraente, nevrotica, al secondo matri-monio. Dal primo marito, Nathanael, morto dopo quattro anni, ha avuto un figlio ormai grande, Gerald, renitente alla leva e fuggito in Svezia. Con Dubin (che, tanto per intenderci, ha incontrato mettendo un avviso sul giornale locale: vedova, giovane, con un figlio, disponibile a incontrare, eccetera…) ha procreato Maud: una ragazza insicura, che rifiuta il suo nome perché sembra il muggito di una mucca, pronta a ogni tipo di esperienze, non meno nevrotica di sua madre.
Un giorno, la monotona esistenza dei Dubin viene sconvolta dall’arrivo di una collaboratrice domestica poco più che ventenne, Fanny Bick: occhi verdi, capelli lunghi, corpo molto sensuale. Il passo è breve. Una mattina la giovane e intraprendente collaboratrice entra nello studio, si spoglia e lancia le mutandine in faccia al biografo imbambolato dietro lo scrittoio. Lui gliele rilancia indietro: insomma, l’attimo non viene colto. I due, però, si rivedono. Fanno un viaggio in gran segreto a Venezia in cui succede di tutto, compreso il fatto che l’attimo non viene colto neppure lì. Si lasciano. Lei va a Roma e poi a New York, e, come a Venezia, passa da un amante all’altro. Lui riprende la sua vita tragica e ordinata di marito che non doveva sposare la donna piagnucolosa e isterica a sua volta convinta del grande errore commesso a sposare quell’uomo insoddisfatto, depresso, incarognito sulle vite degli altri, incapace di vivere la sua.
Passano i mesi. Gli aceri si tingono di colori meravigliosi. Nevica. Fa un freddo cane. Viene la primavera. Riappare Fanny. E finalmente la passione si scatena. Dubin, con mille scuse, va a incontrarla a New York, negli alberghi in cui l’America puritana trascorre il weekend o consuma il colpevole adulterio. Lei lo insegue a Center Campobello. Kitty sospetta, tortura il marito fino a fargli perdere la virilità e il desiderio (che invece con Fanny puntualmente rinasce), va dallo psicanalista, e a sua volta tradisce.
La vita di Lawrence si incaglia e diventa una ossessione. Quella di Dubin, un inferno: «Una traccia di luce scura in una entità gassosa, una vela cupa in un mare irradiato di perdita». La memoria, intanto, si smarrisce. L’ordine si smarrisce. Dubin non sa che fare. Bruciare il libro che non riesce a scrivere? Liberarsi della vita morta? Il tempo corre. Nello specchio aumentano i capelli bianchi. Corre anche il romanzo poderoso, che meglio di ogni altro romanzo americano racconta la sofferenza coniugale. E, come è giusto che sia, perché spesso succede, la sua conclusione rimane in sospeso.