Repubblica 17.11.15
Maylis De Kerangal.
La scrittrice francese abita nell’XI arrondissement dove sono avvenuti i massacri. “Gli assassini non possono tollerare l’integrazione pacifica”
“Quel sangue sul mio quartiere simbolo di convivenza”
intervista di Fabio Gambaro
PARIGI La scrittrice Maylis de Kerangal abita a pochi passi dalla rue Alibert et dalla rue de la Fontaine au Roi, le strade dove venerdì sera i terroristi hanno sparato raffiche di Kalashnikov contro bar e ristoranti, seminando morte e terrore. Il suo è il quartiere simbolo della movida notturna della capitale francese, tra la rue Oberkampf e boulevard Voltaire, dove si trova il Bataclan, la sala da concerti che i terroristi islamici hanno scelto per colpire al cuore la voglia di vivere dei giovani parigini. «Abito qui, nell’XI arrondissement, da molti anni. I locali colpiti l’altra sera, Le Carillon, Le Petit Cambodge, La Bonne Bière, la Pizzeria Casa Nostra li conosco bene, ci vado spesso con mio marito e miei figli. Sono posti semplici, dove si sta bene, la gente è simpatica e l’atmosfera è sempre piacevole », racconta l’autrice di Riparare i viventi e Nascita di un ponte (entrambi da Feltrinelli), che in Francia ha appena pubblicato un libro dedicato ai migranti di Lampedusa, A ce stade de la nuit. «Non credo che sia un caso che i terroristi abbiano colpito proprio questa zona di Parigi piena di vita, di bistrot e ristoranti, frequentati soprattutto dai giovani. Qui ogni sera affluiscono moltissime persone per stare assieme, per divertirsi, per rilassarsi. Chi ha sparato voleva spazzare via questa atmosfera di festa. Voleva colpire il divertimento, la musica, la spensieratezza ».
L’XI è anche un quartiere molto meticcio...
«È vero. È una zona di frontiera, tra i quartieri signorili del centro e quelli più popolari della zona nord della capitale. Due universi che si mischiano abbastanza armoniosamente. In questa zona di Parigi convivono classi, razze, culture e religioni diverse. È la Parigi multietnica dove molti negozi e locali sono tenuti da algerini, turchi, cinesi. C’è anche un mercato pieno di vita, colori e profumi in cui tutti si ritrovano. Se gli uomini della jihad hanno attaccato questi luoghi, è proprio perché non possono ammettere l’armonia e la voglia di vivere assieme tra comunità e religioni differenti. Oltre alla vita notturna e alla gioia di vivere dei giovani, i terroristi volevano ferire la coesistenza sociale, etnica, culturale e religiosa. Una coesistenza per loro inconcepibile ».
Con i loro attacchi, i terroristi volevano imporre la paura. Ci sono riusciti?
«Per adesso direi di no. Il giorno dopo, più che la paura dominava la tristezza. Quando, dopo una notte insonne, dopo aver sentito gli echi delle raffiche dei kalashnikov e le sirene delle ambulanze e della polizia, siamo usciti per le strade del quartiere, si respirava un’atmosfera da day after. Un’atmosfera pesante e silenziosa. La città era ferita e sotto shock, ma al contempo si percepiva un forte desiderio di solidarietà e il bisogno di ritrovarsi in una comunità unita. Per esempio, quando siamo andati all’ospedale vicino a casa per donare il sangue, c’erano già moltissimi donatori che erano affluiti spontaneamente. Davanti ai luoghi degli assalti, la visione di morte e desolazione era impressionante. Ma c’era anche molta gente venuta per rendere omaggio alle vittime della strage. Molte persone erano in lacrime di fronte all’ingiustizia di questa morte che ha colpito ciecamente. È assurdo pensare che si possa morire perché ci si è seduti con un’amica ai tavolini di un caffè o perché si è andati a un concerto».
Qual è il sentimento dominate nel quartiere?
«Un’immensa tristezza. Dappertutto si percepisce la prostrazione e lo stupore. E nello stesso tempo una sorta di pace e di raccoglimento. Al di là dello shock e dell’incredulità per tanta violenza e per i tanti morti, nel quartiere non vedo né collera né spirito di vendetta. Vedo invece la volontà di continuare a vivere, comunque e ad ogni costo. Come noi, molti abitanti del quartiere, il giorno dopo sono usciti in strada proprio per non cedere alla paura. Volevamo riprendere possesso della città per non lasciarla in mano ai terroristi. Uscire in strada, tornare a sedersi ai tavolini di un bistrot, entrare nei negozi per fare la spesa è un modo semplice per riappropriarci del nostro spazio e sfidare il terrore. È un modo per riaffermare la nostra libertà di vivere».
Non teme che i massacri perpetrati nel nome dell’islam mettano a rischio la coesistenza tra le comunità di cui parlava?
«Certo è un rischio, ma per ora mi sembra che ciò non stia accadendo. Oggi per le strade del quartiere non c’era nessuna animosità nei confronti dei musulmani. Nessuno li accusa di quanto è accaduto. Per ora dominano la compassione e la solidarietà. Nei prossimi giorni però il mondo politico dovrà essere molto vigile, per difendere l’unione nazionale e la coesione del paese. Deve impedire che la comunità nazionale si spacchi e che i musulmani siano messi all’indice, diventando il capro espiatorio della violenza terrorista. Insomma, la politica deve dimostrarsi forte e all’altezza della situazione, per riuscire a difendere la nostra idea di repubblica, i suoi valori e le sue libertà. Di fronte al terrorismo non bisogna cedere di un millimetro».