lunedì 16 novembre 2015

Repubblica 16.11.15
Ecco le parole di cui occorre parlare
Esce un piccolo vocabolario di termini che aiutano a maneggiare meglio una lingua
di Stefano Bartezzaghi


Ci sono parole che ci piacciono soprattutto per il loro suono, ognuno ha le sue e quasi non ci si accorge di quando si fa un giro di frase per poter pronunciare la parola prediletta o quando la si usa al posto di una che magari sarebbe più opportuna. Nella maggior parte dei casi, però, quelle che si dichiarano le proprie preferite non sono parole, bensì cose.
Nei referendum sulla parola più amata, vince quasi sempre “amore” — che, si sa, è soprattutto una cosa meravigliosa; e, al contrario, viene odiata “odio”, che sarà anche una brutta cosa ma come parola in sé non è niente male.
Durante la recente settimana della lingua italiana nel mondo sono state prese molte iniziative sulla lingua italiana. Treccani, per esempio, ha lanciato un hashtag quasi morettiano(nel senso di Nanni):
# leparolevalgono. Qual è la parola che ti ha cambiato la vita? Pochi (tirando a indovinare) avranno votato
“sebbene”. Molti, tra cui Luciana Littizzetto, hanno invece indicato “resilienza”, una parola che oggi ha infatti una sua moda, come l’ha avuta in passato “serendipità”. Sia l’una sia l’altra sono tra le 264 Parole di giornata elencate e discusse nell’omonimo libro di Edoardo Lombardi Vallauri e Giorgio Moretti, che arriva ora in libreria (Il Mulino). “Resilienza” vi è definita come «Resistenza alla rottura, capacità di affrontare e superare le avversità»; “Serendipità” come «Il fatto o la capacità di trovare qualcosa di imprevisto cercando altro». Ma cosa sono le “parole di giornata”?
Dei due autori del libro il primo, Lombardi Vallauri, insegna linguistica a Roma Tre; il secondo, Moretti, non ha fatto studi specifici ma tiene il blog “Una parola al giorno”. A chi non solo le usa ma le studia pure, in modo professionale o per passione, spesso piacciono parole un po’ diverse di quelle che piacciono agli altri.
Così i due hanno attraversato i vocabolari per selezionare una quantità di parole di cui vale la pena parlare. Abbrivio, acchito, accidia, addomesticare, affettato, alesare... transeunte, trasecolare, travet, trinariciuto, umbratile, vapido, velleità, vellicare, venusto, vieto, zelo. Bastano le prime e le ultime per valutarne la varietà: parole facili, parole apparentemente facili, parole difficili. Diffuse, semi-ignote, corte, lunghe, auliche (e c’è anche “aulico”), gergali. Un altro elenco, preso in mezzo al libro: «pingue, pistolotto, pletora, porno, posticcio, princisbecco, procace, procrastinare, proditorio, prolegomeni, prosopopea, prosseneta, psittacismo, pusillanime, putiferio». Per ognuna di queste gli autori provvedono la divisione in sillaba, definizione, indicazioni etimologiche e un breve testo di commento, a proposito della storia del vocabolo, con le sue eventuali curiosità, e i modi d’impiego.
Dando consigli a un aspirante scrittore, Primo Levi suggeriva la consultazione di dizionari etimologici, a scopi non eruditi ma espressivi. Chi sa, o sente, che nel verbo “scatenare” ci sono catene che saltano imprimerà ai propri usi del verbo un’energia maggiore. L’etimo diventa una sorta di rincorsa che riesce a dare più slancio al discorso: un suggerimento di grande sapienza retorica. Necessario soprattutto in tempi in cui il discorso sociale restringe il campo delle sue scelte lessicali nei limiti delle parole più note e correnti, in modo da proporsi sempre come trasparente.
Dietro a ogni elogio del “parlare semplice” c’è l’idea che il discorso sia il mezzo di trasporto del pensiero: se faccio arrivare il mio pensiero da me e te con il minimo del tempo e di spesa per entrambi, allora va bene, sono bravo. Un copywriter, uno spin- doctor, un titolista che proponessero di usare parole come “transeunte” in una comunicazione qualsiasi sarebbero considerati pazzi (e giustamente, si intende). Ma ecco che, da anni oramai, si è prodotto una specie di riflusso di nostalgia per parole che usiamo sempre meno (come “nequizia” o “venusto”) o che usiamo ma senza saper più da dove vengano, ovvero quale metafora sia morta sotto il loro uso corrente.
La “remora” è un pesce che attraverso una ventosa si attacca alla nave per farsi trasportare e che si riteneva fosse addirittura in grado di rallentarne la navigazione (il nome viene da “mora”, indugio, ritardo). “Buggerare” deriva da “bulgarus”, bulgaro, perché molti bulgari seguivano l’eresia patarina, accusata di propugnare la sodomia.
Quindi “buggerare” significava, né più né meno, metterlo in quel posto: oggi pochi immaginano l’origine oscena del verbo che è la stessa di “fregare”, peraltro.
Sulla stessa analogia fra inganno e costrizione a un atto sessuale oscilla anche il significato di “infinocchiare”, che deriverebbe dall’usanza degli osti disonesti di offrire del finocchio prima di mescere vino di cattiva qualità: il sapore invadente del finocchio avrebbe coperto quello disgustoso del vino.
IL LIBRO Parole di giornata, di Edoardo Lombardo Vallauri e Giorgio Moretti ( il Mulino, pagg. 251, euro 15) Il libro seleziona 264 termini di cui fornisce la sillabazione, il significato, l’etimologia e i contesti nei quali è adottato. Si va da espressioni di uso comune, “ bacio” o “ desiderio” ad altre come “ discrasia” o “ embricare”