venerdì 13 novembre 2015

Repubblica 13.11.15
Lo scaricabarile del governatore
di Stefano Folli


COME era inevitabile, la vicenda De Luca smuove le acque dentro il Pd e porta a galla le frizioni interne più insidiose: quelle che investono la stessa maggioranza renziana.
E ALIMENTANO distinguo e sottili divergenze nell’area che sostiene il segretario- premier. Non è, insomma, o non è solo, la solita frattura con la vecchia minoranza raccolta intorno a Bersani (oggi indebolita dalla mini-scissione a sinistra).
L’incrinatura tocca stavolta personaggi che non sono renziani in senso stretto, ma non sono nemmeno avversari dichiarati del presidente del Consiglio. È il caso del ministro della Giustizia, Orlando, uomo di equilibrio, che al Corriere tv non esita a dire una frase impegnativa: «Io De Luca non lo avrei sostenuto. Ma lui ha vinto le primarie ». Dove si coglie una critica al meccanismo fuori controllo delle primarie, ma soprattutto a chi utilizza in modo ambiguo tale meccanismo, quando è conveniente farlo, per promuovere personaggi discussi, detentori di un potere locale spesso poco trasparente. E De Luca è ormai l’esempio negativo di come si possa distorcere nella pratica un’ottima idea — appunto la scelta dal basso dei candidati — , concepita a suo tempo per sconfiggere gli apparati.
A questo punto la semplice attesa dei risultati dell’inchiesta giudiziaria rischia di non essere sufficiente. Anche perché le mosse del presidente della Campania mostrano una crescente debolezza. De Luca aveva cominciato affermando: «non so nemmeno di cosa mi si accusa ». Ma ieri ha cercato di mettere tutto sulle spalle del suo segretario e braccio destro, Mastursi, secondo una tecnica antica e non molto commendevole. Peraltro il medesimo segretario si era dimesso in tutta fretta giorni fa. Si capisce quindi che la storia è limacciosa e soprattutto non è destinata a risolversi in fretta. Con ogni probabilità si trascinerà per settimane e forse per mesi, in piena campagna elettorale per le comunali di primavera. Una situazione molto scomoda per il Partito Democratico nel suo complesso.
Giorno dopo giorno, si impone la realtà: il partito ha subito un rinnovamento solo di facciata, che in molti casi lo ha lasciato nelle mani di mediocri potentati locali. La selezione operata attraverso le primarie ha dato talvolta risultati positivi: si pensi a Pisapia a Milano e naturalmente allo stesso Renzi, che non avrebbe potuto altrimenti scalare il Pd con tanta rapidità. Ma oggi prevale un bilancio negativo perché sono davanti agli occhi le macerie di Roma, dove Ignazio Marino aveva vinto le selezioni grazie all’appoggio dell’establishment cittadino del Pd; e ovviamente si guarda al vaso di Pandora di Napoli, con l’intreccio di sottobosco affaristico, spesso ai limiti della legalità, non visto e non contrastato in tempo.
Allo stato delle cose, le primarie sembrano essere tuttora lo strumento privilegiato attraverso cui verranno scelti a breve i candidati sindaci. Ma dopo il caso De Luca diventa logico immaginare che il Pd studi un regolamento, una cornice condivisa, per evitare altri cortocircuiti. Oppure sarà il premier-segretario, peraltro egli stesso un prodotto delle primarie, che deciderà i nomi e li calerà dall’alto. Ma è ancora in grado di farlo? Con la vicenda napoletana aperta e quella romana chiusa solo in apparenza grazie al commissario straordinario, non è detto che Renzi abbia la voglia e soprattutto la forza di agire in prima persona, sfidando le incognite del voto.
Ecco allora che si apre nel Pd una dialettica interna. C’è un’area che non si è mai confusa con le battaglie e qualche volta le frustrazioni della minoranza, ma che palesemente non è soddisfatta di come il premier gestisce il suo notevole potere. È un’area che aspettava l’occasione per segnalare la sua diversità ed è possibile che il caso De Luca le offra oggi lo spunto atteso. Orlando, Delrio, Guerini, per certi aspetti Chiamparino e altri hanno l’opportunità di farsi sentire.