Corriere 13.11.15
Quell’approccio «umile» che può aiutare i profughi
di Giampaolo Silvestri
Segretario generale dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (Avsi)
Caro direttore, Sultan ha poco più di quarant’anni, e viene da Idlib in Siria. Una pelle indurita dagli anni di lavoro esposto al sole della terra inquieta del Medio Oriente.
Scappato dalla guerra, da ormai due anni, Sultan è una delle persone che compongono quel popolo di un milione e mezzo di profughi che oggi vivono in Libano, terra di mezzo. Ma lui non voleva rimanere sospeso, con le mani in mano, e lasciare che la noia e il vuoto divorassero la dignità sua e il futuro dei suoi bambini. Ha trovato chi gli ha offerto la possibilità di un lavoro: sistemare con altri profughi la foresta Ebel Saqy, a Marjayoun nel Sud del Libano, e una scuola per i figli. Un argine contro il nulla, nell’attesa concreta di poter tornare a casa.
Nelle rughe del volto di Sultan si legge una possibilità per quell’«approccio innovativo» che Ban Ki-moon (nell’articolo sul Corriere dell’11 novembre) auspicava per il tema migranti e rifugiati, a partire dalla sua vicenda personale.
Un approccio che può innovare se è «umile» nel senso etimologico di questa parola, cioè aderente alla terra (humus), alla realtà. I numeri del fenomeno (60 milioni di profughi nel mondo, il ventiquattresimo Stato più popoloso nel mondo, ma fantasma) lo inquadrano già come un processo di cambiamento epocale che nessuno può avere l’ambizione di risolvere, ma che attraverso vicende come quella di Sultan si può vivere da protagonisti.
Come? Con uno scatto della società civile tutta anche nel nostro Paese, che si lasci scuotere da questa pagina di storia e si metta sulla strada accanto ai profughi. Invitare a camminare con loro per almeno un tratto è una provocazione, ma anche l’inizio di qualcosa di nuovo: significa considerare le persone che sono costrette a lasciare la loro casa a causa di guerre, persecuzioni e fame, lungo tutto il loro viaggio, dal punto originario attraverso le soste in Paesi di transito, fino a quando arrivano a lambire le nostre case. Aver presente tutto il loro percorso implica cercare di immedesimarsi per intervenire a vari livelli, assecondando la complessità della questione senza schiacciarla in riduzioni, né buoniste né esclusive.
Significa sostenere queste persone là «a casa loro» finché è possibile. Sostegno non è sussidio: è accendere la miccia, mettere in moto l’autonomia di una persona e anche di un’intera comunità. Ma vuol dire anche esserci con progetti di lavoro, il cosiddetto cash for work , nei campi dove sosta chi è in fuga. Un lavoro che serva a mantenere la propria famiglia e ad alimentare la speranza di un ritorno a casa dignitoso, non da falliti.
E infine il sostegno quando arrivano qui: certo le attuali politiche su rifugiati e migranti, come ha rilevato ancora Ban Ki-moon, stanno mostrando la loro inadeguatezza, vanno cambiate, ma intanto lasciano i margini per un’azione di prima accoglienza verso chi transita in Italia o verso chi, rifugiato e richiedente asilo, tenta di innestarsi nel tessuto delle nostre città senza escludere il ritorno. È questione di realismo e di opportunità. Chiede un passo personale. Perché profughi e noi, alla fine, siamo tutti sulla stessa strada.