giovedì 12 novembre 2015

Repubblica 12.11.15
Il potere opaco del partito-vulcano
di Stefano Folli


IL CASO De Luca a Napoli è un groviglio ancora in parte inesplorato, ma la cui onda d’urto potrebbe rivelarsi persino più devastante della vicenda Marino a Roma. Potrebbe. Nel senso che, come si dice in questi casi, occorre attendere con fiducia che la magistratura completi il suo lavoro.
IN realtà i tempi della politica sono assai più rapidi di quelli della giustizia. Il presidente della Campania può solo difendersi, cercare di essere convincente (ieri non lo è stato granché) e augurarsi che passi la nottata. Viceversa il Pd, il partito del Presidente del Consiglio, deve attrezzarsi per reggere il colpo. È l’immagine del movimento rinnovatore e modernizzatore che viene di nuovo ridimensionata. È la campagna elettorale per le amministrative di fatto già avviata che viene condizionata dallo spettacolo “poco esaltante”, parole del ministro della Giustizia, andato in scena alle pendici del Vesuvio. È un pasticcio tutto politico, prima che giudiziario.
Ha ragione Emanuele Macaluso, coscienza critica della sinistra ex comunista, che sul sito “Formiche” ha scritto una semplice verità. Forse l’aspetto più grave del caso non è nemmeno l’accusa di concussione per De Luca, bensì il singolare doppio incarico del suo segretario, Nello Mastursi, a sua volta pienamente coinvolto nell’inchiesta della procura di Roma. Mastursi fino a due giorni fa era anche il responsabile organizzativo del Pd campano. Quindi da un lato egli era il braccio destro di De Luca, dall’altro era l’uomo forte del partito di cui Renzi è pur sempre il leader nazionale. E quale sia l’ambiguità della situazione lo dimostrano le frettolose dimissioni di Mastursi dal primo incarico, quello di capo della segreteria del presidente. Dimissioni motivate dall’ufficio stampa con una risibile motivazione: stress per il “troppo lavoro” e necessità di concentrarsi sull’organizzazione del partito.
Era il tentativo di fermare la valanga in arrivo e ovviamente è fallito. Le misteriose dimissioni non hanno fatto in tempo a essere recapitate e già erano sovrastate dalle notizie che hanno riempito i giornali. Ciò ha indotto l’ex segretario di De Luca a dimettersi in seconda battuta anche dall’incarico nel Pd. Dove gli aspetti sconcertanti sono in sostanza due.
Primo, il tentativo di nascondere le vere cause delle dimissioni presentate dal segretario del presidente. Segno che molti sapevano dell’inchiesta in corso, al punto che qualcuno ha cercato goffamente di circoscrivere i danni. Secondo, il fatto che il presidente della Regione esercitasse, attraverso il suo uomo, un controllo diretto e, si suppone, capillare sul Pd. Altro che rinnovamento e trasparenza.
Questa opacità nelle città e nelle regioni, soprattutto nel centro-sud ma non solo, è il vero limite del Pd renziano. Sembra quasi che Palazzo Chigi sia un castello dotato di ponte levatoio: al suo interno il presidente del Consiglio può pensare di controllare in termini politici tutto il territorio nazionale. In realtà, ci sono tanti capi locali che vanno per conto loro e impongono le loro leggi, almeno fin quando non interviene la magistratura. Giusto mentre qualcuno prova a sgusciare via a causa del “troppo lavoro”.
Qui è il vero danno d’immagine per Renzi e il suo vagheggiato partito personale. Nel quale, al momento, di personale c’è ben poco. Tanto che la fine di certi intrecci è dettata dalle inchieste giudiziarie, anziché dalla volontà politica di vederci chiaro in varie zone d’Italia. Ora, è vero, c’è solo da attendere le conclusioni dell’indagine. Ben sapendo però che i danni ormai sono fatti e non possono essere riparati con un processo di rimozione. Il vulcano ha cominciato a eruttare. Certo, De Luca non è Ignazio Marino. È un uomo di personalità, spregiudicato e alquanto arrogante. Rimuovere il sindaco di Roma era più facile e nonostante ciò le macerie politiche nella Capitale sono sotto gli occhi di tutti. Una crisi in Campania sarebbe quasi insostenibile per il Pd. Renzi lo sa e lo sa anche De Luca.