La Stampa TuttoLibri 8.11.15
Mishani: Perché qui è difficile scrivere gialli
“In Israele non c’è posto per Montalbano”
“C’è l’ossessione del terrorismo: i criminali comuni sono sbiaditi. I poliziotti non hanno successo, gli eroi sono agenti del Mossad”
intervista di Maurizio Molinari
Il commissario Avraham dà la caccia ad un sospetto criminale che offre una versione diversa e complementare del delitto, consentendo ai lettori di immergersi in un giallo raccontato a tutto tondo. Non solo con la voce del detective ma anche del suo avversario.
Un’ipotesi di violenza, il nuovo libro dello scrittore israeliano Dror Mishani in uscita per i tipi di Guanda, è protagonista della sfida di raccontare i reati comuni in una società dove i crimini sono quasi sempre a sfondo politico o ideologico. Nel romanzo di Mishani un commissario anomalo tenta di scoprire la verità in maniera inconsueta: facendosi accompagnare da dubbi, esitazioni e timori di ripetere gli errori passati nella speranza di migliorare rispetto al passato. E’ un approccio che lo trasforma in una sorta di anti-eroe grazie al quale gli israeliani, ma non solo loro, riescono ad esplorare la mente dei criminali, immergendosi nell’opacità che ne avvolge l’identità.
Perché ha scritto «Un’ipotesi di violenza?»
«L’idea è venuta da un’insolita conversazione con Benjamin, il mio primogenito. All’epoca aveva 4 anni e, all’ora di cena, mi disse “Sai che avevo un padre prima di te?”. Lo guardai, scioccato. E lui aggiunse: “Ma è morto”. Questa conversazione mi ha tormentato fino a ispirarmi una scena del romanzo e il romanzo stesso».
La trama nasce dunque da un mistero?
«Direi che nasce dal mistero dei misteri dell’anima o della mente umana. Dal desiderio, spesso futile, di comprendere quanto opachi e ingannevoli siamo noi stessi e le persone che ci circondano».
Il protagonista è l’ispettore Avraham, che personaggio è?
«Avraham è un ispettore di polizia a Holon, a Sud di Tel Aviv. Non è Sherlock Holmes perché non riesce sempre a vedere più degli altri, e non è neanche Hercule Poirot, perché non pensa che siamo tutti potenziali killer. Avraham è un ascoltatore appassionato, si identifica molto - a volte troppo - con le vittime e con i criminali su cui indaga. Le sue indagini assomigliano spesso alla ricerca di indizi di innocenza anziché di tracce di colpevolezza».
Da dove nasce questa sua anomalia?
«In questo libro Avraham è traumatizzato dall’esperienza fatta nelle precedenti indagini - il tema di Un caso di scomparsa - perché cerca costantemente di vedere ciò che non vide allora. E, inoltre, è innamorato di una poliziotta belga, Marianka, forse sognando di riuscire a costruire una famiglia con lei nonostante tutto ciò che vede e sa sulle famiglie nei casi di cui si occupa».
Perché ha scelto di narrare questo romanzo da una doppia prospettiva, dell’ispettore e del maggiore sospetto?
«E’ la questione che ho più a cuore. L’ho voluto fare in ogni romanzo: raccontare una storia di crimine da più punti di vista. In genere la letteratura poliziesca ha un’impostazione autoritaria perché racconta la vicenda solo dal punto di vista del detective. E dunque la sua versione della storia è l’unica. Mi sono però sempre detto che non era così».
Perché è importante avere la versione del sospetto?
«Perché una storia poliziesca non è solo un mistero da risolvere ma anche una complessa tragedia umana che tocca tante vite - delle vittime e delle loro famiglie come dei criminali e delle loro famiglie - e dunque non può essere raccontata solo dal punto di vista del poliziotto. Questo è il motivo per cui tento di scrivere le storie ascoltando sempre l’altro lato della tragedia, tentando di consentire ai lettori di mettere assieme i diversi pezzi di verità della storia che leggono, con diversi punti di vista».
Cosa avvicina e distingue questo romanzo da «Un caso di scomparsa»?
«Nel precedente Avraham era alle prese con la prima indagine. Era sicuro di sè, o pretendeva di esserlo, ma alla fine scopre di aver sbagliato tutto. E’ questo precedente che lo rende più sospettoso, meno sicuro, consapevole degli errori ed ansioso di correggerli. In qualche maniera è stata anche la mia situazione: sedersi a scrivere un secondo romanzo, soprattutto il secondo di una serie, è strano perché ti trovi descrivere degli stessi personaggi e degli stessi panorami ma con l’opportunità di migliorarti. “Un’ipotesi di violenza” è però anche differente dal precedente libro perché vi sono nuovi personaggi che amo molto e dai quali ho avuto difficoltà a staccarmi, come Chaim Sara e i suoi due figli, Ezer e Shalom. La loro presenza fa la differenza».
Perché è difficile scrivere romanzi gialli in Israele?
«E’ difficile scrivere romanzi sui detective. Il motivo ha a che vedere con l’immagine negativa della polizia. Non credo che in Israele un agente potrà mai essere popolare come Montalbano in Italia. Alla base di questo c’è il fatto che in Israele i reati comuni - senza implicazioni nazionali o politiche - riscuotono scarso interesse. Mentre quando un reato politico avviene l’attenzione non va sull’identità di chi lo commette o sulle sue motivazioni bensì sul fatto che è un palestinese che attacca un ebreo. Non c’è mai una vera storia».
Dunque, quale è la missione di uno scrittore di gialli in Israele?
«Ripristinare il valore della vita, di ogni vita umana, in una società troppo abituata alla morte, e di farlo attraverso una narrazione di circostanza uniche, inerenti ad un’unica morte, insistendo nel ricordarla, comprenderla. La narrativa può farlo perché è basata sul tenere accesa una singola luce».
Perché in Israele la polizia non ha la reputazione dell’esercito?
«E’ un motivo che risale alle origini dello Stato. Sin dall’inizio la polizia è stata composta in gran parte da ebrei sefarditi, originari di Paesi arabi o musulmani, cresciuti nelle periferie di Israele. A differenza di esercito e intelligence dove a prevalere sono gli ebrei europei. La polizia è sefardita, orientale, con conseguenze negative nell’immaginario popolare. Ad esempio il poliziotto più conosciuto è “l’agente Azoulay”, protagonista del film comico di Kishon nel 1971. Azoulay è di origine marocchina e patetico - sebbene di buon cuore - ed è quanto di più lontano da un eroe come Montalbano. Senza contare che gli agenti si battono contro i nemici interni - povertà, violenza famigliare e droghe - mentre per gli israeliani è più facile identificarsi con uno 007 del Mossad».
Cosa distingue i criminali dei suoi libri?
«Non mi interessano i criminali professionisti o gli psicopatici. Voglio indagare sui reati dalla gente comune, in momenti estremi di rabbia o furia, e su come si comportano dopo. Voglio esplorare il momento in cui un uomo o una donna come tanti commette un crimine. E magari non pensa di aver fatto qualcosa di male. Il mio focus non è sulla società come un mistero o una scena del delitto ma sul mistero dell’opacità dei comportamenti umani».