domenica 8 novembre 2015

La Stampa TuttoLibri 7.11.15
Nel capannone di Serra l’inverno del nostro scontento
Un ricercatore (700 euro al mese) cerca di resistere tra i disagi della modernità e il trionfo del pensiero unico
di Bruno Gambarotta


Con perfetto tempismo, sono comparsi sui muri delle nostre città dei manifesti pubblicitari che mostrano bambini e ragazzi biondi allineati frontalmente; tutti tengono con entrambe le mani un dispositivo elettronico e lo manovrano stando con la testa china in avanti. Illustrano la «Sindrome dello Sguardo Basso», una fra le tante brillanti diagnosi messe a punto da Michele Serra per dare un nome ai mali del nostro presente. Colpisce Agnese che cammina guardando lo schermo dell’egòfono (traduzione letterale di Iphone) e non vede il ciclista che l’investe e le procura una piccola ferita alla testa. Per raccontare «l’inverno del nostro scontento», Michele Serra mette in campo un protagonista che parla in prima persona e tenta invano di difendersi dalla marea montante del pensiero unico. E’ Giulio Maria, figlio tardivo di una Maria 40enne e di un Giulio 60enne; tutti lo chiamano Giulio ma la fidanzata Agnese lo chiama Ciccio. Nato nel 1980, sta per compiere 36 anni ed è un antropologo ricercatore; in coppia con il collega Ricky studia l’esultanza dei calciatori dopo che hanno realizzato un goal, per un assegno di 700 euro al mese. Analizzano le registrazioni delle partite e classificano le reazioni. Ricky è «sconsideratamente ottimista»: «da anni non si dice più posto di merda, si dice non luogo».
Siamo a «Capannonia», l’estesa conurbazione padana ai piedi degli Appennini e appunto della vendita di un capannone deve occuparsi Giulio. E’ quello lasciatogli in eredità dal padre ebanista e commerciante in legnami, morto dieci anni prima. E’ stata sufficiente una sola generazione per passare da un lavoro vero a uno finto. Di fianco c’è il capannone di Squarzoni che non si arrende e si ostina a lavorare i metalli «come Geppetto che accende il moccolo nella pancia della balena». Agnese lavora con sua madre nel locale di famiglia, Ai Tre Pini: «il fatto che i tre pini siano due cipressi è brillantemente riassuntivo dell’aspetto incongruo, comicamente casuale di questi posti».
Ai Tre Pini Giulio ha un’epifania: è lì per dare una mano nel locale affittato per una rumorosa festa di ragazzi quando alle due di notte salta la luce; fino all’alba dovrà lavare a mano montagne di stoviglie e sperimenterà la sotterranea musica del lavoro manuale («lavori e non pensi più a te stesso»). La scoperta non sarà sufficiente a dare una svolta alla sua vita. In compenso, attraverso le vicende di Giulio, Michele Serra può rappresentare con feroce allegria gli aspetti demenziali del nostro mondo. «Le rotonde sono milioni, da queste parti. Produciamo rotonde». Grazie a loro, una sera Giulio si perde nei campi, perché il traffico è stato deviato in seguito alla morte di un cinghiale travolto da un’auto. Attorno all’animale si forma una «rotonda» di persone che sparano pareri demenziali, rivolte non ai presenti ma a lontani interlocutori tramite l’egòfono.
Giulio è allergico ai selfie da tradurre «sestessino, eghino»; un tempo per gli adolescenti americani «farsi un selfie» significava masturbarsi. Si arrabbia con Agnese perché quando è con lui non resiste: «dò un’occhiata alle mail» e passeggiando risponde alle telefonate, e Giulio stenta a capire che non si sta rivolgendo a lui. E’ stato allievo al liceo della professoressa Oriani che ora affitta un piccolo appartamento nella casa dove vivono lui e la madre; è un’accanita lettrice ma la cultura tradizionale non aiuta a comprendere in «un mondo di ragazzi di tutte le età». Giulio ha una passione per il rock di Caleb Followill ma la scoperta che ha due anni meno di lui lo getta nello sconforto: «non sono io che invecchio, sono gli altri a ringiovanire».
Ad ogni occasione la scrittura di Michele Serra s’impenna in pirotecniche e iperboliche evoluzioni, usando come magistrali propellenti gli avverbi. Su 126 pagine effettive ne abbiamo contati 181. Come succede con i grandi pessimisti – Ceronetti, Cioran – grazie allo stile la visione catastrofica del presente si traduce nel lettore in una sferzata di energia propositiva. Giulio finirà per vendere il capannone ai cinesi ma la sua resa non è indirizzata al lettore. La spiegazione del titolo arriva al capitolo 24, sui 30 di cui si compone il libro. Durante una fantasia di onnipotenza, indotta dall’ascolto di California Waiting di Caleb, Giulio, e con lui Michele Serra, arriva ad affermare: «Ognuno potrebbe salvare il posto dove vive. O perlomeno ha il diritto di vivere per un istante pensando che sarebbe capace di farlo».