sabato 21 novembre 2015

La Stampa TuttoLibri 21.11.15
Gillo Dorfles
“Il privilegio d’aver 105 anni? Ho conosciuto Svevo”
“Per capire l’arte bisogna innanzitutto esercitare lo sguardo e girare i musei. E poi aiuta leggere i miei libri, tutti”
di Francesco Rigatelli


Ha compiuto 105 anni. Gillo Dorfles mi riceve per cortesia fuori dalla porta di casa, al piano alto di uno scuro palazzo novecentesco milanese ai margini del centro. La casa del principe dei critici d’arte è a metà tra un archivio di carte e un deposito di quadri. Le lampadine sono quelle fioche di una volta. Sorvegliati da un Fontana rosa alla parete, ci sediamo a un tavolo di noce con Luigi Sansone, che la casa editrice Skira descrive come l’angelo custode del grande esteta e il curatore dell’opera monumentale
Gli artisti che ho incontrato
. Ultima zampata di Dorfles con la mostra su di lui a cura di Achille Bonito Oliva, che inaugura venerdì al Macro di Roma. Nell’intervista sui suoi gusti lo scopritore della modernità nell’arte non fa nomi per discrezione, per non ingelosire nessuno e per rimandare ai suoi scritti, esibisce il tratto mitteleuropeo da triestino elegante e a volte nichilista, vanta il risultato «di essere sempre riuscito a fare quello che mi piaceva» e se ne esce ogni tanto così: «Se vuole un superalcolico me lo dica: ne ho parecchi!».
Dorfles, cos’è per lei l’arte contemporanea?
«Se uno potesse rispondere a questa domanda non ci sarebbe più arte».
Lei come la riconosce? In base a cosa capisce se è arte o no?
«Per la sensibilità estetica che viene dimostrata dall’artista. Chi più, chi meno. Se uno per professione si occupa dell’argomento si spera abbia una capacità maggiore degli altri. E che si noti».
Cosa la colpisce di un artista nuovo?
«Questa è una domanda di psicologia a cui io, psichiatra di formazione, non posso rispondere. Certo per me viene prima la persona che l’artista».
Così veniamo ai suoi inizi. Qual è la sua formazione?
«Sono laureato in Medicina e specializzato in psichiatria».
E com’è avvenuto il trasferimento nel mondo dell’arte?
«In realtà ho scritto i miei primi articoli a 18 anni sull’argomento. Il che non toglie il mio interesse per la neurologia, pur mai esercitato».
Perché non ha fatto il medico e ha scelto la critica d’arte?
«Per generosità verso i possibili pazienti. Mi sono reso conto che sarei stato un pessimo dottore».
La Trieste della sua gioventù?
«Vi sono nato e vi sono rimasto fino a quando mi sono trasferito a Roma per l’università. Poverina, Trieste era una città più speranzosa di oggi, che si aspettava dall’Italia molto più di quanto ha avuto. Da parecchi anni casa mia è Milano, dove vivo in questo archivio di quadri regalatimi dagli artisti che ho scoperto».
Lei stesso è un artista.
«Ho dipinto fino agli Anni 60 poi mi sono distratto insegnando Estetica a Milano e a Cagliari, ma in realtà non ho mai smesso e ho fatto diverse mostre. E’ la mia professione, l’ho svolta più o meno bene ma continuamente. L’ultimo quadro è di quest’estate».
Di cosa narra?
«Non racconta niente, perché non faccio quadri narrativi ma pittorici. Certe volte astratti, altre no».
A cosa si ispira quando dipinge?
«A me stesso ovviamente. Senza alcuna definizione. Dipingo quello che ho dentro e le stagioni non mi influenzano».
Con Gianni Monnet, Bruno Munari e Atanasio Soldati ha fondato il Movimento per l’arte concreta.
«Volevamo un astrattismo depurato e razionalizzato contro l’arte figurativa. Durò cinque o sei anni poi negli Anni 50 finì: il destino di tutte le cose».
Questo suo spirito le viene dal clima triestino d’inizio secolo?
«A Trieste ho conosciuto Italo Svevo, Umberto Saba e Bobi Bazlen. A Milano e a Roma nessuno sapeva ancora chi fosse Freud».
Poi il Novecento si è chiuso, che ne pensa?
«Che non si può dire questo, è ancora in atto e la pittura di oggi è la continuazione di quella novecentesca».
Gli artisti contemporanei sono più o meno interessanti di quelli di allora?
«Ogni secolo ha i suoi artisti e ogni pittore è interessante se è riuscito. Se è fallito non è da ammirare in qualsiasi secolo. Gli artisti del Novecento sono stati maggiori di quelli dell’Ottocento. Ora è un momento difficile, ma ci sono delle individualità».
Lei non ama i nomi, ma può fare un’eccezione per uno dei suoi preferiti: Lucio Fontana?
«Non faccio mai i nomi e non so raccontare favole. Gli artisti si vedono, non si raccontano. Fontana è stato un mio amico come Agostino Bonalumi, Giuseppe Capogrossi e Enrico Castellani».
Ha raggiunto delle quotazioni incredibili.
«Finalmente viene riconosciuto il suo valore».
Cosa c’è dietro un taglio di Fontana?
«La sua personalità».
E il Fontana di oggi chi è?
«Non c’è per fortuna. Un grande artista non ha ripetitori».
Il critico d’arte ha ancora una funzione?
«Notevole, perché le persone non si avvicinano da sole all’arte contemporanea. Il critico dovrebbe servire a illuminare il pubblico».
Perché ha scelto Estetica come materia?
«È la branca filosofica più vicina all’arte. Creazione, fruizione, storia vi sono compresi. Ho vinto la cattedra e ho insegnato fino alla pensione».
Ci può essere un’estetica senza etica?
«Sono due cose diverse. Uno può essere un artista e al contempo un delinquente. Ci sono molti casi del genere».
Cosa suggerisce a chi vuole capire l’arte contemporanea?
«Di girare i musei più importanti per farsi una preparazione. Per capire d’arte bisogna prima di tutto esercitare lo sguardo. Poi leggere tutti i miei libri aiuta».
E lei chi ritiene fondamentale per la sua formazione?
«Nessun altro che me stesso».
Lei come si definisce politicamente?
«Un bipede implume».
Non ha una posizione politica?
«No, per fortuna il fascismo è finito quindi non ho più neanche bisogno di essere antifascista».
Si sente un liberale?
«E’ una parola che non ha più significato. Beh, mi pare che abbia fatto abbastanza domande: un articoletto riuscirà a scriverlo…».
Posso fargliene una su Milano?
«E perché non su Torino? Io la preferisco, ci ho fatto il servizio militare e ne conservo ottimi ricordi».
La domanda vale per tutte le città: che ne pensa dei nuovi grattacieli?
«Era ora che si muovesse un po’ la situazione. Viva la verticalità, con tutta la pianura che ci circonda».
La fotografia è un’arte?
«Può esserlo. Non ogni dilettante fotografo è un artista».
A lei interessa o la considera un’arte minore?
«Non mi interessa, anche se ho fotografato a volte per divertimento».
E perché le interessa di meno?
«Vuole mettere con la pittura? Non c’è confronto!».