La Stampa 9.11.15
Nella città degli smartphone dove la Cina sfida Apple
In 50mila da tutto il mondo nel campus hi-tech di Huawei a Shenzen
di Bruno Ruffilli
«A Shenzen ci sono sette donne per ogni uomo», dice Lin. Chatta, risponde alle mail, muove veloce le dita smaltate sullo schermo del telefono. Che è marchiato Huawei: siamo nel quartier generale del più grande produttore cinese di smartphone, terzo nella classifica globale dopo Samsung e Apple («Ma non è vietato usare altri telefoni»).
Il campus Huawei è una città nella città, dove lavorano quasi 50 mila persone. Ci sono strade e parchi, un laghetto con cigni neri arrivati apposta dall’Australia, 3200 appartamenti di diverse dimensioni destinati ai dipendenti. «Io vivo qui, arrivo in ufficio in una ventina di minuti a piedi, mentre se abitassi in città mi servirebbe almeno un’ora e mezza», spiega Lin. Nel quartier generale si incrociano persone da ogni parte del mondo e si parla correntemente inglese, oltre al cinese. C’è anche un’università interna, i cui corsi sono equiparati a quelli degli atenei statali.
Da villaggio a metropoli
Shenzen, nella regione meridionale del Guangdong, è la Silicon Valley della Cina, il luogo dove le idee di startup e inventori diventano gadget pronti per il mercato. Era un villaggio di pescatori, in trent’anni è diventata una megalopoli con dieci milioni di abitanti, che arrivano a quindici in autunno, quando le fabbriche assumono manodopera da tutta la Repubblica Popolare in vista della stagione natalizia. Proprio accanto alla città di Huawei si stende il gigantesco complesso di Foxconn, dove nascono iPhone, PlayStation e tanti altri gadget hi tech. Dei tremila e passa produttori di smartphone cinesi, il 90 per cento ha sede qui: sono perlopiù piccole e medie aziende che lavorano su progetti generici da personalizzare con il design e il logo dei committenti e che possono contare su personale abbondante, ottime infrastrutture, un porto che è il terzo al mondo per traffico. E su sostanziosi incentivi fiscali, perché Shenzen è una delle prime aree della Repubblica Popolare ad aver beneficiato dello status di Zona Economica Speciale, nel 1980. Hong Kong è a meno di un’ora in auto, e i controlli al confine non sono così severi.
Il campus Huawei è pulito ed efficiente, con tanto verde e un’infinità di addetti alla manutenzione, giardinieri, sorveglianti, hostess. «Abbiamo tutto, ci sono anche due centri medici, un albergo e i supermercati per comprare quello che ci serve», spiega un’altra impiegata, giovanissima. A Shenzen l’88 per cento delle popolazione ha tra i 15 e i 59 anni. Va mai in città? «Qualche volta, nel weekend, ma spesso torno dai miei genitori, a duecento chilometri da qui».
La sera il centro di Shenzen è illuminato quasi soltanto dalle luci dei negozi e degli alberghi, le strade si svuotano presto, e davanti ai locali più esclusivi si vedono Rolls Royce e Ferrari; le biciclette proletarie resistono, ma sono numerosi gli scooter elettrici. Tra le attrazioni per turisti c’è Window Of The World, con 130 riproduzioni di monumenti famosi, come la Torre Eiffel e il Colosseo, e il Fake Market, dove ogni oggetto originale ha il suo clone.
Luci e ombre
Fondata nel 1987 da Ren Zhengfei, ingegnere nell’esercito cinese, Huawei all’inizio costruiva centraline telefoniche smontando i prodotti più venduti per riprodurli a prezzi concorrenziali. Nel 2011 ha presentato i primi smartphone col proprio marchio, quest’anno conta di venderne oltre 100 milioni, anche con il nome Honor, per la fascia più bassa del mercato. In Europa la crescita è del 98 per cento nell’ultimo anno, concentrata soprattutto su modelli di gamma media e alta. «Vogliamo diventare il primo costruttore di smartphone», spiega un dirigente. «Come faremo? Puntando alla qualità più che alla quantità. Siamo passati da 75 modelli a 20, destiniamo a ricerca e sviluppo un decimo del ricavo annuale, e siamo primi al mondo per numero di brevetti: 3442 nel 2014». Oltre i numeri, la conferma dell’importanza di Huawei arriva da Google, che con l’azienda cinese ha realizzato il Nexus 6P, il modello di come a Mountain View immaginano i terminali Android: display grande, struttura in metallo, lettore di impronta digitale, ottima fotocamera, design originale («Non volevano l’ennesima copia dell’iPhone»).
I terminali rappresentano il 26 per cento dei ricavi, contro il 7 per cento delle soluzioni per aziende: la maggior parte proviene dalle infrastrutture per le telecomunicazioni, dove Huawei è prima al mondo. È oggi la sola azienda che produce allo stesso tempo gli smartphone e tutto quello che serve per farli funzionare, ma la sua supremazia nel settore delle reti desta qualche preoccupazione, ad esempio negli americani, secondo i quali le apparecchiature Huawei potrebbero essere utilizzate dal governo cinese per controllare le comunicazioni negli Usa. A Shenzen non sembrano preoccupati: «Il nostro scopo è far comunicare il mondo», dicono. Il paradosso della nuova Cina è tutto qui: da una parte un’azienda che nasce e si sviluppa con la libera circolazione dei dati, dall’altra un governo che censura Internet e impedisce di accedere a Facebook e Twitter, ma pure alle mappe di Google e al «New York Times».