La Stampa 8.11.15
Il mix che manca agli anti-renziani
di Massimiliano Panarari
C’è un nuovo «sceriffo» in città. O, meglio, c’è una nuova isola nel frastagliato arcipelago (più o meno) radical. Con la nascita di Sinistra italiana si assiste all’apertura di un altro cantiere (che si affianca a quello, «in sonno», della Coalizione sociale di Maurizio Landini) e a un ulteriore tentativo di occupare lo spazio a sinistra del Pd «nella versione dei Matteo» (Renzi e Orfini). Un brand che, dal punto di vista del nome (e della sigla), va all’essenziale (ricordando un po’ l’omonima formazione ex comunista tedesca, «Die Linke»), e vuole contrastare il progetto di partito pigliatutto a cui sta lavorando la maggioranza renziana.
Se guardiamo al mercato elettorale in termini di domanda, è verosimile – lo dicono i numeri (anche quelli più recenti dell’astensionismo) – che vi sia potenzialmente molta (o, quanto meno, abbastanza) agibilità per una forza anti-liberista collocata a sinistra del Pd. È, però, altrettanto verosimile che nella realtà delle urne tale richiesta non si tradurrà in un successo di tali proporzioni per i partiti e i soggetti radicali esistenti. Non soltanto per la peculiarità tutta nostra della presenza del Movimento 5 Stelle, «non partito» post-ideologico che acchiappa voti anche a sinistra, ma perché, più complessivamente, l’offerta attuale non appare adeguata a intercettare la domanda. Quella presentata ieri al Teatro Quirino costituisce infatti, in piena età della disintermediazione, l’ennesima operazione top-down (dall’alto in basso) effettuata da un ceto e personale politico che si organizza senza riuscire affatto ad avvicinarsi ai connotati del tanto citato «modello Podemos» (non a caso, la partenza avviene proprio sotto forma della costituzione di un gruppo dentro il Parlamento mentre i suoi dirigenti annunciano con aria intransigente che non si tratterebbe di un «gioco di palazzo»).
Una volta di più, dunque, si evidenzia come la debolezza strutturale della sinistra-sinistra nostrana consista nell’avere mancato l’appuntamento con il cambio di paradigma imposto dal postmoderno. Quello che prevede come formula magica (e, quindi, vittoriosa) per una forza politica la capacità di miscelare in giuste dosi tre elementi: un leader forte e visibile, forme organizzative innovative e strumenti di comunicazione efficaci (oltre, naturalmente, a un «blocco sociale» di riferimento, legge della politica eternamente valida). Un mix di cui non paiono esservi molte tracce nella nata già vecchia Sinistra italiana. La leadership unitaria non si intravede (ed è ideologicamente assai poco nelle corde dei promotori), mentre è facile immaginare una mentalità ancora piuttosto fordista e la nostalgia organizzativa del partito di integrazione di massa (solo che le masse non ci sono più...). La comunicazione? Questa sconosciuta (e «peccaminosa»), secondo i riflessi condizionati dei radical italiani (con l’eccezione della stagione del vendolismo). In tutto e per tutto, dunque, una sinistra tipicamente novecentesca che si autodichiara, per di più, (neo)socialdemocratica. Come se il Secolo breve e l’epoca delle grandi narrazioni non fossero stati spazzati via dallo tsunami della postmodernità.