La Stampa 27.11.15
La politica parli prima delle armi
di Roberto Toscano
Il sedicente Stato Islamico era stato inizialmente sottovalutato un po’ da tutti, compreso il presidente Obama, che aveva indicato nel suo semplice contenimento l’obiettivo della comunità internazionale. Si rivela invece oggi che il suo brutale ingresso sulla scena mondiale, da Raqqa a Parigi, è rapidamente diventato un inquietante fattore non solo di caos e violenza a livello regionale, ma anche di destabilizzazione globale.
Visto sotto un semplice profilo militare, il fenomeno appare assolutamente incomprensibile. Sia come consistenza numerica che come disponibilità di armamenti avanzati, una sconfitta di Daesh non dovrebbe costituire un problema per una coalizione di sessanta Paesi, tra cui alcuni fra i più avanzati militarmente, a partire dagli Stati Uniti.
Ultimamente qualcuno non ha resistito alla tentazione di evocare la Germania nazista e la Seconda Guerra Mondiale. Ma se davvero al-Baghdadi fosse Hitler, dove sono gli alleati?
È sconcertante che ancora da noi ci si attardi su un dibattito assolutamente sterile, oltre che scarsamente razionale, sulla presunta alternativa fra risposta militare e risposta politica. I disastri iracheno e libico dovrebbero aver dimostrato che quando non c’è chiarezza né sull’analisi della situazione né sugli obiettivi politico-strategici che si perseguono al di là della sconfitta militare dell’avversario, il «dopo» rischia di essere più minaccioso per i nostri interessi, a partire dalla sicurezza.
Mai come ora, in altri termini, dovrebbe essere il momento della politica e della diplomazia. Non come alternativa all’uso della forza militare, ma come indispensabile premessa capace di definire obiettivi principali, alleanze non di facciata, compromessi.
Sulla Siria, la cui feroce guerra civile ha trasformato in Daesh quello che era un ramo abbastanza marginale di Al Qaeda, la diplomazia è certamente in movimento, e possiamo soltanto rallegrarcene, anche se non possiamo fare a meno di considerare tragico che ci siano voluti anni di distruzione e di morte per capire quello che doveva essere evidente almeno dal 2012: che né Assad né i ribelli potevano prevalere sul campo di battaglia e che quindi l’unica possibile soluzione era di tipo politico-diplomatico.
Non sarà comunque facile, dato che le sorti della Siria e del suo popolo non sono certo la vera posta in gioco praticamente per nessuno dei molti Paesi coinvolti. Gli obiettivi sono altri.
La Turchia di Erdogan, impegnata in un disegno neo-ottomano, si era inizialmente illusa di poter diventare il nuovo leader regionale di un Islam conservatore ma modernizzante e si è poi spostata, soprattutto dopo la sconfitta in Egitto dei Fratelli Musulmani, su posizioni di appoggio indiscriminato al jihadismo e di fatto allo stesso Daesh.
Russia e Iran, da parte loro, cominciano ad essere riconosciuti come partners insostituibili per una soluzione al dramma siriano e per una lotta efficace allo Stato Islamico. E’ già questo stesso fatto a costituire per loro un importante obiettivo. Putin, dopo il suo colpo di mano sulla Crimea e il suo «revisionismo territoriale armato» nei confronti dell’Ucraina, ha visto a rischio la propria ambizione di essere riconosciuto come partner/avversario soprattutto degli Stati Uniti. Oggi, rievocando l’epopea, molto cara ai russi, di quella che essi chiamano la Grande Guerra Patriottica, si presenta come possibile alleato contro un «nemico assoluto» come lo Stato Islamico. Non sarà certo facile che questo azzardo funzioni. L’incidente con la Turchia dimostra quanto sia problematico schierarsi nello stesso tempo dalla parte dei Paesi Nato ed esasperare le tensioni nei confronti di uno dei suoi membri.
Anche per l’Iran, infine, l’importanza della Siria ha certo a che vedere con obiettivi quali la necessità di mantenere un passaggio verso Hezbollah, ma riveste anche, come per la Russia, una importante dimensione in chiave di riconoscimento, inclusione. Così come prima e indipendentemente dall’accordo sul nucleare Teheran aveva già raggiunto un importante obiettivo nel momento in cui Washington ha accettato di sedersi allo stesso tavolo delle trattative, oggi essere coinvolti nei negoziati di Vienna sulla Siria è per gli iraniani un grosso successo.
E’ vero che in occasione della recente visita di Putin a Teheran, e in particolare dell’incontro con il Leader Supremo Khamenei, è risultato per entrambi irresistibile cogliere l’occasione per criticare gli Stati Uniti, la loro scarsa credibilità, i loro «doppi standard», le loro pretese egemoniche. Ma Khamenei non può davvero credere che quello che chiama «fronte della resistenza» possa fornire al Paese un’alternativa né sul terreno della sicurezza né su quello dello sviluppo, e soprattutto che i russi (nei cui confronti fra l’altro gli iraniani nutrono storicamente sospetti solo inferiori a quelli che nutrono da sempre nei confronti della «Perfida Albione») siano davvero una grande potenza su cui contare.
Sia russi che iraniani in realtà alzano il prezzo, pur rimanendo entrambi disposti a fare la loro parte nella sconfitta dello Stato Islamico.
Si tratta di vedere se il prezzo da loro richiesto risulterà accettabile, e soprattutto quanto tempo ci vorrà per raggiungere una convergenza con Stati Uniti ed Europa.
Nel frattempo dobbiamo aspettarci che chi ha tutto da perdere da un simile accordo faccia il possibile – ovunque e con tutti i mezzi – per aumentare la paura, le divergenze fra gli alleati, la tentazione di chiamarsi fuori. Le prossime settimane saranno particolarmente pericolose.