venerdì 27 novembre 2015

Corriere 27.11.15
Il reportage. Slovenia-Austria
L’inverno soffia sui profughi
di Alessandra Coppola


SENTILJ (Slovenia) Mancano scarpe. Nel tendone della protezione civile slovena che ordinatamente raccoglie e smista quintali di vestiti usati, nel campo profughi di Sentilj, c’è una cronica penuria di calzature, specie maschili, in particolare dal 39 in su. «Le consumano», spiega Ann, volontaria. Alla fine della rotta balcanica, a un passo dalla Mitteleuropa, arrivano coi tacchi logori, le suole rotte, le tomaie scucite: «Da buttare».
Riad Ali ha camminato almeno due ore sotto la pioggia battente al confine tra Macedonia e Serbia: «Pochi chilometri, ma eravamo tutti bagnati, i bambini piangevano, e dovevamo andare piano per gli anziani». Reporter, ha girato un ultimo servizio per un’emittente di Dubai nella sua Afrin, a nord di Aleppo, quindi ha raggiunto moglie e figlia in Turchia e con loro si è messo in viaggio. In gommone fino all’isola di Kos, in traghetto ad Atene. Alla frontiera tra Grecia e Macedonia, meno di una settimana fa, Riad ha assistito alla «selezione» dei rifugiati: «Gli iraniani non li facevano passare». Nemmeno pachistani, né bengalesi. Le organizzazioni internazionali segnalano che a Idomeni ci sono mille persone bloccate.
L’ultima novità di questa marcia-roulette: chi è individuato come «migrante economico» non procede. Filtrano solo siriani, iracheni e afghani: al confine tra Slovenia e Austria sono gli unici che riescono ad arrivare. Più o meno velocemente. I Paesi balcanici cercano di accelerare il transito (e «spostare» il problema più a nord). Ogni tanto compare del filo spinato, una transenna, un tentativo di blocco, ma in linea di massima il flusso scorre.
Il rallentamento comincia qui, in Stiria, tra gli affluenti del Danubio. L’inchiesta sui terroristi di Parigi ha indicato che l’Austria è stata un passaggio facile, fin troppo, e ora le registrazioni richiedono tempi più lunghi. A ridosso del vecchio valico di Sentilj, allora, ci sono centinaia di persone in fila, e altrettante che attendono la chiamata della polizia. Coperte sulle spalle, accendono fuochi di sterpi e rifiuti per il freddo che ormai è andato sotto zero. La preoccupazione principale dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è in questa terra che gli stessi funzionari chiamano «di nessuno». I profughi, così vicini alla meta, spiega il portavoce per l’Europa centrale Babar Baloch, restano il minor tempo possibile nel campo attrezzato e riscaldato, mezzo chilometro indietro, e si spingono tutti nella «no man’s land» a pochi metri dall’Austria.
Per la precisione, il prato brullo oltre la grata arrugginita e piegata dove un ragazzo afghano s’aggira per raccogliere rami da bruciare è già Austria. Da un decennio, da quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea e in Schengen, questo vecchio pezzo di impero austroungarico s’è ricomposto, e il passaggio — in particolare dei lavoratori da Maribor a Graz — è cospicuo e quotidiano. Ma far defluire 200 mila profughi in meno di due mesi in un unico punto non è impresa facile nemmeno per i diligenti sloveni.
Autobus e treni li vanno a prendere al confine con la Croazia, con una fermata speciale a Sentilj. Dello smistamento si occupano militari e poliziotti: lo sforzo è notevole, gli agenti sono reduci da uno sciopero. La protezione civile gestisce l’accampamento. E anche per il funzionario Rudolf Golob la preoccupazione è il freddo. «Abbiamo avuto un ottobre splendido e fino a poco fa era bello — osserva —. Da ora in poi le temperature saranno negative». Il rumore dei generatori è costante, stufe-fungo spuntano a ogni angolo, le coperte grigie e ispide dell’Unhcr vanno subito in lavanderia, pronte per i turnover sulle brande. Sono arrivati gli aiuti del governo svizzero, nei magazzini ci sono provviste francesi, e le mele che sarebbero state destinate all’esportazione verso la Russia dopo la crisi ucraina sono state dirottate qui a tonnellate. I vestiti arrivano dai punti di raccolta sparsi per il Paese. Scarpe, ma servono anche giubbotti pesanti, berretti, sciarpe e pantaloncini per bambini: «Si son fatti tutti la pipì addosso durante almeno una tappa del viaggio», spiega un’altra volontaria, Tatiana.
Il cambio d’abiti serve allora per pulirsi e per imbottirsi, perché dove vanno, tra Germania e Svezia, non farà meno freddo. All’ingresso del tendone-armadio, Mahmoud indica un cappotto che pare abbastanza pesante. Artigiano siriano, non c’è dubbio che sia in fuga: viene da Raqqa, la capitale dell’Isis. «Bombe, distruzione» scuote la testa, si fa capire un po’ in inglese, un po’ a gesti. Nemmeno i serbi scherzano, vuole dire, indica di essere stato picchiato. Al bancone il volontario gli ricorda che è il suo turno. E lui per concludere chiede scarpe: «Numero 43».