domenica 22 novembre 2015

La Stampa 22.11.15
Perché ora l’occidente deve cambiare
di Giovanni Orsina


La parola chiave è «controllo». I terroristi cercano di dimostrare a noi occidentali che la nostra superbia è vuota. Che possono rubarci il controllo sulle nostre vite sottomettendoci alle loro regole. E la nostra debolezza di occidentali consiste nella consapevolezza - magari non esplicita, ma quanto presente! - che il controllo sulle nostre vite lo abbiamo già perduto anche a prescindere dal terrorismo. Meglio: che quel controllo in realtà non lo abbiamo mai avuto, o comunque non nella misura iperbolica in cui ci era stato promesso. In maniera più o meno consapevole, così, in noi si insinua il dubbio che stiamo difendendo un’isola che non c’è. E le nostre difese vacillano.
La si può definire autodeterminazione, o se si preferisce sovranità su se stessi. Comunque la si chiami, è la più ambiziosa promessa della modernità occidentale: il diritto degli esseri umani di decidere del proprio destino senza essere subordinati ad alcunché di esterno e superiore. La parola è fuori moda, ma in questo caso la si deve usare: senza essere subordinati a Dio. Per molti decenni abbiamo cercato di far fronte alla «morte di Dio» per via politica, cercando nelle filosofie della storia e nelle utopie collettive quell’ancoraggio «assoluto» che la secolarizzazione aveva distrutto.
Poi, grosso modo fra gli Anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso, il pensiero critico che aveva corroso le religioni trascendenti ha finito di corrodere anche quelle politiche e immanenti. E l’individuo, coi suoi diritti, è rimasto solo.
A quel punto, però, è toccato all’autodeterminazione individuale essere assolutizzata: se Dio è morto e il comunismo pure, se il paradiso non mi aspetta né in questo mondo né nell’altro, allora non potrò tollerare che la promessa che mi è stata fatta di essere sovrano su me stesso non sia realizzata appieno. Sennonché, è una promessa che non può essere mantenuta: se la vogliamo mettere sul filosofico, a motivo dell’imperfezione ineliminabile dell’umanità; in termini storici, invece, perché il mondo che ha preso forma negli ultimi cinquant’anni è diventato un meccanismo a tal punto complesso che nessuno riesce più a controllarlo, e tutti, chi più chi meno, gli sono inevitabilmente subordinati (sto liberamente seguendo qui la lezione dello storico francese Marcel Gauchet).
Il terrorismo islamico attacca due volte la promessa occidentale di autodeterminazione assoluta, da fuori e da dentro. Da fuori ne denuncia la natura utopica. Cari occidentali, ci dicono i terroristi, vi riportiamo sotto il controllo di quel Dio al quale pensavate di essere sfuggiti, e lo facciamo dandovi la dimostrazione somma del vostro essere umanamente limitati: con la morte. La vostra morte; quella dei prigionieri sgozzati in mondovisione; ma anche la nostra di martiri, che vi diamo l’esempio di una radicale sottomissione volontaria. Da dentro, il terrorismo denuncia il fallimento del progetto occidentale. Continuiamo a dare una lettura sociologica dei terroristi nati e cresciuti in Europa, guardando alle periferie degli spostati. Ma non tutti i terroristi sono dei perdenti: non lo era, ad esempio, Jihadi John; non lo era Hasna Aitboulahcen, che è morta mercoledì scorso a Saint-Denis. Forse vale la pena affiancare una spiegazione filosofica a quella sociologica, allora: poveri o ricchi, emarginati o integrati, costoro hanno chiaramente ritenuto insufficiente la risposta occidentale alla loro domanda di senso e identità. Se l’utopia dell’assoluta sovranità su se stessi è fallita, paiono dirci, allora tanto vale tornar sottomessi a Dio. E farlo nella maniera più clamorosa possibile: uccidendo e morendo.
A ogni episodio della sfida terrorista l’Occidente risponde producendo delle ondate di retorica sempre più potenti e - in tutta franchezza - sempre più intollerabilmente stucchevoli. In quest’ultima settimana abbiamo toccato delle vette forse (speriamo) irripetibili: il pianista che suona John Lennon in mezzo alla strada; il musulmano bendato che si fa abbracciare a Place de la République; il compianto per il cane morto nel blitz a Saint-Denis. La retorica, però, ha tutta l’aria di nascondere il vuoto: la cattiva coscienza, la sensazione di fallimento, e - più ancora che l’incapacità, perché la capacità invece ci sarebbe eccome - la sostanziale non-volontà di difendersi. Continuiamo a ripetere che i terroristi non cambieranno il nostro modo di essere, ma le nostre parole hanno il suono falso e atterrito di uno scongiuro.
Se tutto quel che ho scritto finora ha un senso, forse la nostra reazione dovrebbe essere l’esatto contrario di quel mantra: la presa d’atto che dobbiamo almeno in parte cambiare il nostro modo di essere - che, se vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare a qualcosa. Sul piano pratico sta già accadendo: nei prossimi mesi, inevitabilmente, alcuni nostri diritti saranno compressi, perderemo in privacy e libertà di movimento. Forse, prima o poi, qualcuno di noi occidentali dovrà andare (o meglio: tornare) a combattere e morire in Medio Oriente. Ma il terreno più difficile è quello teorico: dovremmo capire che l’assoluta sovranità su se stessi è una promessa che non può essere mantenuta, e che continuare a farla è autolesionistico; dovremmo accettare i macroscopici, inevitabili difetti del modello di vita occidentale, smettendo di sentirci in colpa per le sue imperfezioni, e pensando al contempo che quel modello resta malgrado tutto il migliore che sia emerso finora (eh sì!), perché garantisce una sovranità su se stessi comunque molto maggiore dei modelli alternativi; dovremmo riconoscere che la nostra libertà non si regge sul vuoto ma su alcuni - pochi - valori che è pericolosissimo mettere in discussione, e che bisogna essere disposti a difendere.
Ne saremo capaci? Se non lo saremo, che Dio ci aiuti.