domenica 22 novembre 2015

Il Sole Domenica 22.11.15
Claudio Abbado (1933-2014)
Memorie di un uomo tenace
La nuova edizione del libro scritto con Lidia Bramani «Musica sopra a Berlino» ne consegna la sfida all’umana mediocrità
di Quirino Principe


«Rispetto alle edizioni del 1998 e del 2000 di Musica sopra Berlino, il filtro selettivo della memoria si è fatto a maglie più strette. Abbado guardava a questo libro non come a una summa esaustiva degli anni berlinesi (sarebbe stato contrario allo spirito dei Cicli, diceva,) ma come a un vademecum per decidere un ascolto, per rileggere un libro, o tutte e due le cose insieme. [...] Voleva parlare solo di quello che gli era servito e gli serviva per consegnare un modello, firmato non da un divo ma da un uomo tenace». È l’annuncio di ciò che vogliono essere e saranno veramente queste pagine, ed è formulato poco dopo l’inizio del libro, al quarto capoverso. Diamo grande importanza a questo incipit, poiché non soltanto non desideriamo (deprecando!) l’ennesimo pamphlet à rebours in laude divi Claudi, ma addirittura lo paventiamo. Ma dovrebbe essere chiara la distanza stellare che separa Lidia Bramani, strenua difenditrice del buon gusto e della misura che occorrono a chiunque voglia dar voce a chi non c’è più hic et nunc, dalla figura del cronista cultural-mondano oggi clonato in innumeri esemplari.
Insistere sui segreti e sulla cifra stilistica di Abbado direttore d’orchestra è un lavoro benintenzionato ma ci ricorda l’aneddoto pseudo-agostiniano del mare vuotato con secchiello, né ci attrae, al di là di una cortese mostra di attenzione, l’esplorazione di episodi dal significato generico e non personalizzanti (oh, questo diventa una tortura indicibile qualora si leggano interviste a un cantante d’opera... con un direttore d’orchestra si può sperare in uno spiraglio di sereno). Ci interessa invece, con il fiato sospeso, il giudizio che un Kapellmeister formula a proposito dei rapporti tra il lavoro musicale (suo e altrui) e il mondo, il groviglio sociale, l’indecenza dei poteri e dei potenti, la stravaccata ignoranza di questi ultimi in materia di arti, di scienze, di storia e storiografia, di pensiero, di cultura, che è poi, fatalmente, badiale ignoranza in materia di musica, essendo la musica, insieme, arte e scienza, storia nel tempo ma in una forma simbolica che è spazio sovrastorico; essendo la musica pensiero e significato (ossia bellezza, poiché la bellezza e null’altro che sistema di significati bene espressi, e la bruttezza è insignificanza), ossia cultura, Kultur, civiltà.
Ci interessa Claudio Abbado che, come ogni direttore veramente grande, sfidò l’umana mediocrità per farsi strumento, per divenire lui stesso quel suono e quel gesto orchestrale che escludeva, in quell’istante, qualsiasi altra realtà dell’Esistente. Conta per noi, nella cultura d’Occidente che riteniamo la più alta sul pianeta malgrado le sue occasionali infamie (e qualcuno tenti di convincerci del contrario), Claudio Abbado che, lungi dal raccontare qualche risposta spiritosa da lui data aquesto o quell’immaginario primo oboe arrogante o a uno svogliato cornista altrettanto inventato, s’incammini sul terreno di una filosofia sempre più attenta alla musica che le contende il più alto rango del pensiero.
È questo che Lidia Bramani riesce a ottenere, conducendo Abbado lungo strade finora assai poco mostrate ai lettori. Lo diciamo qui, una volta per tutte in questa nostra nota, ma lo abbiamo detto altrove più volte, e d’ora in poi lo diamo per detto e non lo ripeteremo più: altri direttori d’orchestra ci hanno imposto vibrazioni ed emozioni più forti di quelle che dobbiamo ad Abbado. Certamente, è difetto nostro, se «forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion de l’arte / perch’a risponder la materia è sorda», e qui la materia sorda siamo noi. Ma, all’inverso, più di molti altri direttori italiani e non, e di prima grandezza, Abbado si avvicina a una visione della musica oggi più che mai irrinunciabile se si vuole che la musica occidentale, e con essa la civiltà occidentale (il legame logico è ferreo, infrangibile, quasi tautologico), esca dalla prigione dorata, circoli, lampeggi di significati, ridiventi visibile ai più. Intendiamo dire: a una visione filosofica della musica. Ci è costato lacrime e sangue usare quell’aggettivo, ma con un analgesico il dolore se ne va. Con intelligente esca d’esordio, Lidia Bramani attira Abbado sul terreno delle sue esperienze alla guida dei Berliner Philharmoniker. La risposta insiste, con limpida maieutica culturale, su una scelta di programma: il concerto del 1992, in cui fu scelto un tema, Prometeo, essenziale per dare un volto e un impulso d’energia all’Occidente in senso laico, votato alla libertà, al rifiuto dell’autorità fondata sul potere e non sulla ragione, al coraggio di dire di no al presunto Bene, di respingere la delizia della lobotomizzazione intellettuale («non mangiate di quei frutti...!»), di non cantare nel coro: chiunque, ne siamo certi, capisce che Prometeo ribelle all’odioso e iniquo Zeus è, nella cultura occidentale, una prefigurazione dell’ardimentoso e solitario Lucifero, entrambi portatori di fuoco e di luce, e perciò di energia, di e = mc2. «Le musiche per il balletto Le creature di Prometeo erano ancora poco note rispetto al resto dell’opera beethoveniana, e le ho accostate ad altri lavori ispirati a quel mito. Beethoven guardò alla coreografia di Viganò con grande libertà, sfruttando ciò che più colpiva la sua fantasia per invenzioni armoniche e tematiche, interventi concertanti (come l’assolo del violoncello) o arricchendo la partitura con i timbri inusuali dell’arpa e del corno di bassetto». Tutto molto preciso, e di agevole comprensione per una cultura diffusa, quella italiana, alla quale pare “gergale” e “troppo tecnico” (!) parlare di sottodominante o di falso bordone e di contrappunto o di rivolto. Ma ecco, subito, l’ampliamento d’orizzonte: «Prometeo in lotta contro il destino in nome di una scelta morale [noi avremmo aggiunto: “... ed estetica, ossia iper-semantica”...] è simbolo d’ideali molto sentiti da Beethoven. Per questo sperimenta materiale che riutilizzerà nella Terza Sinfonia. Che meraviglia quando nel Finale si sentono i due temi del quarto tempo dell’Eroica, uno negli archi gravi, l’altro nei violini!»
Questo gravitare intorno agli interrogativi filosofici, che il valoroso gruppo italiano di filosofi della musica negli ultimi anni ha mostrato essere centrali e strategici in senso socio-culturale, è stato in Abbado un moto progressivo dell’ingegno e del gusto. Ci conforta notare quanto una forte affermazione della cultura occidentale renda un esito felicemente cosmopolitico, non eurocentrico, nel quale l’identificazione delle differenze non impedisce la loro convergenza. Una domanda, anch’essa strategica, di Lidia Bramani, circa i persistenti legami con Berlino anche durante l’impegno di Abbado con l’Orchestra di Lucerna e con la “Mozart” di Bologna, la risposta, oltre che illuminante, è luminosa: «Avvicinandomi all’arte e alla letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica. Quando studiavo le opere di Musorgskij come il Boris Godunov o la Khovanš?ina ritrovavo la disperazione e insieme la fantasia della cultura russa che avevo amato nelle pagine di Puškin, Gogol’, Dostoevskij, ?echov, Tolstoj o Pasternak. [...] E naturalmente adoro la varietà culturale delle regioni italiane come la Sicilia, con i suoi influssi francesi, spagnoli, greci, arabi».
Forse ci è lecito il tentativo di condensare questo libro, dialogo più che intervista grazie alla chiaroveggenza dell’intervistatrice, in quelle due parole, ma invertendone i fattori dal momento che “il prodotto non cambia”: comprendere meglio il mondo, il Tutto, grazie alla musica, materia d’indagine e suo strumento, oggetto e soggetto insieme.
Claudio Abbado, La m usica scorre a Berlino. Conversazione con Lidia Bramani, Bompiani, Milano, pagg. 154, € 13,00, in uscita il 26 novembre di cui pubblichiamo qui sotto uno stralcio