domenica 22 novembre 2015

Il Sole Domenica 22.11.15
All’improvviso la voglia di vivere
di Svetlana Aleksievic


«A Stalingrado non c’era nemmeno un grammo di terra che non fosse zuppo di sangue umano. Russo e tedesco. Di benzina… Di olio lubrificante… Tutti avevamo capito che non si poteva arretrare di più. Non c’era alternativa: o perire tutti – l’intero paese e il popolo russo – o vincere. Questo a un certo punto era diventato chiaro a tutti. Non lo si diceva ad alta voce, ma ciascuno lo capiva. Sia il generale che il soldato semplice lo capivano…
Arrivavano i rinforzi. Dei ragazzi così giovani, belli. Prima della battaglia li vedevi arrivare e sapevi che di lì a poco sarebbero stati uccisi. Temevo i nuovi arrivi. Avevo paura del loro ricordo, di parlare con loro, perché arrivavano e subito dopo scomparivano. Due, tre giorni dopo… Ti soffermavi a guardarli prima della battaglia… Era il 1942, il momento più duro, più difficile. C’è stata una volta in cui da trecento che eravamo alla fine della giornata non eravamo che dieci. E quando tutto è cessato e siamo rimasti noi soli, abbiamo cominciato a baciarci, a piangere per la gioia di essere ancora vivi. Ci sentivamo legati l’uno all’altro. Come fratelli.
Un uomo sta morendo sotto i tuoi occhi… E sai di non poterlo aiutare in nessun modo, ti accorgi che ha i minuti contati. Lo baci, lo accarezzi, gli dici delle parole affettuose. Ti congedi da lui. Ma non puoi più far niente per lui… Quei volti li ricordo ancora. Li rivedo tutti, uno per uno. Sono trascorsi tanti anni e un volto, almeno uno, potrei averlo dimenticato. Eppure no, non ne ho dimenticato nessuno, li ricordo tutti… Li rivedo tutti… Avremmo voluto scavare delle tombe per loro, con le nostre mani, ma non sempre ci riuscivamo.
Noi ce ne andavamo e loro restavano. Poteva succedere che bendassimo tutta la testa a un ferito e che poi lui morisse così bendato. E veniva sepolto a quel modo, con la testa fasciata. Un altro, se giaceva sul campo di battaglia e stava morendo, almeno guardava il cielo. Oppure qualcuno che stava spirando ti diceva: "Chiudimi gli occhi, sorellina, ma fa’ piano". La città era distrutta, le case in macerie, certo, era spaventoso, ma vedere quei giovani che giacevano a terra… Non riuscivi a riprendere fiato e ti mettevi a correre… Per cercare di salvarli… Ti sembrava che le forze non ti sarebbero bastate, che potevano essere sufficienti solo per altri cinque minuti… Ma correvi… Era marzo, sotto i piedi sentivi le prime pozze d’acqua… Non si potevano più mettere i valenki, ma ti raddrizzavi e andavi. Avevo strisciato sul terreno per tutto il giorno tenendomeli addosso e ora ero così bagnata che non riuscivo neppure a levarmeli. Ero costretta a tagliarmeli. Eppure non mi ammalavo… Lo capisci, stella mia luminosa?
Quando a Stalingrado i combattimenti erano finiti, ci avevano dato l’ordine di trasferire i feriti più gravi sulle navi e sulle chiatte a Kazan’ e a Gor’kij. Era già primavera, marzo o aprile. Ma quanti feriti ancora trovavamo, che giacevano a terra, nelle trincee, nei ricoveri interrati, nelle cantine… Erano così tanti, non riesco neppure a dire quanti. Era atroce! Ogni volta che prelevavamo dei feriti dal campo di battaglia pensavamo che non ne rimanessero altri, che li avessimo trasferiti tutti, che almeno a Stalingrado non ce ne fossero più, e invece ne rimanevano ancora talmente tanti, da non crederci… Era una situazione inimmaginabile.
Sulla nave che avevo raggiunto erano radunati tutti i feriti senza braccia, senza gambe e centinaia di malati di tubercolosi. Dovevamo curarli, convincerli con dolcezza, tranquillizzarli con un sorriso. Ce li mandavano promettendogli che si sarebbero riposati dai combattimenti, era una sorta di riconoscimento, di premio. Ma sembrava che fosse ancora più terribile dell’inferno di Stalingrado.
L à avevi prelevato un ferito dal campo di battaglia, l’avevi soccorso, avevi almeno la certezza che ora era tutto a posto, che lo avevi portato via. E ricominciavi, strisciavi carponi in cerca del secondo.Ma qui erano tutto il tempo sotto i tuoi occhi… Là volevano vivere, smaniavano dalla voglia di vivere. Ti dicevano: “Presto, sorellina!” “Presto, cara!” Qui invece si rifiutavano di mangiare, volevano solo morire. Si gettavano dalla nave. Li sorvegliavamo. Ho trascorso notti intere accanto a un capitano: aveva perso tutte e due le braccia e voleva suicidarsi. Una volta che non avevo avvertito l’altra infermiera e mi sono allontanata per qualche minuto, lui si è buttato giù dalla nave…
Ci avevano portato a Usol’e, nei dintorni di Perm’. Là erano già pronte delle casette nuove, linde, costruite appositamente per loro. Sembrava un campo per pionieri. Li trasportavamo sulle barelle e loro digrignavano i denti. Ne avrei preso uno qualunque per marito. L’avrei portato in braccio. Tornavamo alla nave svuotate. Avremmo potuto riposarci, ma non riuscivamo a dormire. Le ragazze se ne stavano sdraiate, e cominciavano a gemere. Stavamo sedute intere giornate a scrivere lettere.Ci eravamo distribuite i compiti e i nominativi. Scrivevamo tre, quattro lettere al giorno.
Ora le racconto un particolare. Dopo questo viaggio, quando ero sul campo di battaglia ho cominciato a nascondermi il viso e le gambe. Avevo delle belle gambe e avevo paura che restassero mutilate. Temevo anche per il mio viso.
Dopo la guerra per parecchi anni non sono riuscita a dimenticare l’odore del sangue, mi ha perseguitata per tanto tempo. Quando mi mettevo a lavare la biancheria risentivo quell’odore, preparavo il pranzo e succedeva lo stesso. Mi avevano regalato una camicetta rossa – allora era una rarità, la stoffa mancava –, ma non l’indossavo perché era rossa. Non riuscivo più ad accettare questo colore. Non potevo andare nei negozi di alimentari. Nel reparto carni. Soprattutto d’estate… Sai, vedere quei grossi pezzi di carne, così simili… così chiari, come la carne umana… Ci andava mio marito al mio posto… D’estate non riuscivo proprio a rimanere in città, cercavo sempre di andare da qualche parte. Non appena arrivava l’estate mi sembrava che stesse per ricominciare la guerra. Quando il sole surriscaldava tutto, gli alberi, le case, l’asfalto, quell’odore mi ricordava l’odore del sangue. Qualunque cosa mangiassi o bevessi mi ricordava quell’odore! Quando rifacevo il letto persino l’odore della biancheria me lo ricordava…
Erano i giorni di maggio del 1945… Rammento che scattavamo molte foto. Eravamo molto felici… Il 9 maggio tutti gridavamo: “Vittoria! Vittoria!” I soldati si rotolavano nell’erba.Vittoria! Ballavano il tip tap…
Sparavano. Sparavano con tutto ciò che avevano…”Smettete subito di sparare!” intimava il comandante.”Tanto avanzeranno delle munizioni. Che cosa ce ne facciamo?”Non capivano.
Nei discorsi sentivo ripetere un’unica parola: “Vittoria!”All’improvviso ci è venuta un’insopprimibile voglia di vivere!Avremmo cominciato a vivere tutti bene adesso! Ho indossato tutte le mie medaglie e ho chiesto di essere fotografata. Chissà perché volevo farmi fotografare in mezzo ai fiori. E così sono stata fotografata in un’aiola.
Il 7 giugno è stato il mio giorno più felice, mi sono sposata. L’unità ci ha organizzato una grande festa. Mio marito lo conoscevo da tanto: era un ufficiale, comandava una compagnia.
Avevamo giurato che se ne fossimo usciti vivi dopo la guerra ci saremmo sposati. Ci avevano dato un mese di congedo…
Siamo andati a Kinešma, nell’oblast’ di Ivanovo, dai suoi genitori. Ero un’eroina e mai avrei pensato che avrebbero accolto a quel modo una ragazza che arrivava dal fronte. Ne avevamo passate tante, avevamo salvato tanti di quei figli alle madri, tanti di quei mariti alle mogli. E di colpo… Per la prima volta ho capito che cosa significa essere offesi, essere insultati con parole ingiuriose. Prima di allora mi ero sentita solo chiamare “sorella cara”, “amata sorella”. Ero carina, mi avevano dato un’uniforme nuova.
La sera eravamo seduti a bere il tè, la madre ha chiamato suo figlio in cucina e si è messa a piangere: “Ma chi hai sposato? Una ragazza che è stata al fronte… Hai due sorelle più piccole. Chi le prenderà in moglie adesso?”
Anche ora, quando mi torna in mente, mi viene voglia di piangere. Pensi: le avevo portato un disco che le piaceva molto. Nel testo si diceva: …e hai il diritto di andare a spasso con le scarpe più alla moda… Parlava di una ragazza reduce dal fronte. L’ho messo e la sorella più grande mi è venuta vicino e sotto i miei occhi l’ha preso e l’ha rotto. “Lei non ha nessun diritto”, mi ha detto. Hanno distrutto tutte le mie foto… Ah, stellina mia, non ci sono parole. Sono senza parole…(...)
Sa qual era il pensiero di tutti noi in guerra? Sognavamo: “Ragazzi, se ne usciamo vivi… che giorni felici trascorreremo dopo la guerra! Come sarà bella la nostra vita, come sarà felice. Gli uomini che hanno sopportato tanto, potranno compiangersi l’un l’altro. Amarsi. Saranno uomini diversi”. Non avevamo il minimo dubbio al riguardo.
Mia carissima… Gli uomini continuano come prima a odiarsi reciprocamente. A uccidersi. È la cosa per me più incomprensibile…E chi lo fa… Noi… Noi…
Vicino a Stalingrado… Trascino due feriti. Uno, dopo averlo trascinato, lo abbandono per un momento per prendere l’altro. E li trascino a turno perché sono feriti molto gravemente e non posso abbandonarli. Entrambi, come posso spiegarle?, erano stati colpiti molto in alto alle gambe e stavano perdendo tutto il loro sangue. In questi casi ogni minuto è prezioso. E a un tratto, mentre mi allontano carponi dal campo di battaglia e il fumo si è fatto più rado, scopro di stare trascinando uno dei nostri carristi e un tedesco… Sono terrorizzata: là i nostri stanno morendo e io metto in salvo un tedesco. Sono in preda al panico… In mezzo al fumo non mi ero accorta… Osservo. Un uomo sta morendo, un altro sta gridando… Sono entrambi ustionati, carbonizzati. Sono uguali. Poi guardo meglio e scorgo una medaglietta diversa, un orologio diverso, è tutto diverso. Quella divisa maledetta. E cosa posso fare adesso? Trascino il corpo del nostro ferito e penso: “Devo tornare o no a riprendere il tedesco?” Capivo che se l’avessi abbandonato, di lì a poco sarebbe morto. Per il sangue perso… E sono tornata a riprenderlo strisciando. Ho continuato a trascinare entrambi…
Accadeva a Stalingrado… Durante la più terribile delle battaglie. Stella mia, non si possono avere due cuori: uno destinato all’odio e l’altro all’amore. Una persona possiede un cuore solo e io ho sempre pensato a come salvare il mio.
Dopo la guerra per tanto tempo ho avuto paura di guardare il cielo, di alzare la testa verso il cielo. E avevo paura di vedere la terra arata. Mentre sulla sua superficie già saltellavano tranquilli i corvi. Gli uccelli hanno dimenticato in fretta la guerra…».
(Traduzione di Sergio Rapetti)