giovedì 5 novembre 2015

Il Sole 5.11.15
Le ragioni del diritto e la sentenza di Palermo
di Paolo Pombeni


La sentenza pronunciata a Palermo sulla vicenda di Calogero Mannino è al tempo stesso un buon giorno e un cattivo giorno per la giustizia italiana.
È un buon giorno perché dimostra che la dialettica processuale funziona.
Non solo un giudice (in questo caso il giudice monocratico dell’udienza preliminare) ha smentito una richiesta molto pesante dell’accusa, che aveva chiesto una condanna a nove anni (non esattamente una bazzecola). Al tempo stesso con la sua azione il Gup ha messo in crisi una delle argomentazioni di chi sostiene che una pubblica accusa che fa parte dello stesso ordine giudicante del magistrato che decide sul caso riuscirebbe facilmente, per questa sua “vicinanza”, a fare adeguare quest’ultimo alle sue tesi. Se poi pensiamo che nel caso in specie si tratta del rapporto fra Gup e Pm nello stesso contesto del palazzo di giustizia di Palermo c’è da trarre doppiamente fiducia da quanto è accaduto. Aggiungiamoci che non si è trattato di un semplice ridimensionamento delle richieste dell’accusa (questo è frequente), ma di un loro radicale rigetto perché «il fatto non sussiste».
L’aspetto negativo della giornata è dato dalla constatazione che ci sono voluti due anni e mezzo perché si giungesse a questa conclusione e anche qui il tempo non è stato più lungo solo perché è stato possibile attivare uno stralcio rispetto al processo principale (quello sulla cosiddetta trattativa stato-mafia) e fare il processo con rito abbreviato (altrimenti non sarebbe stato possibile al Gup pronunciare la sentenza). Due anni e mezzo sono un tempo inaccettabile perché una persona veda riconosciuta la propria innocenza. Naturalmente sappiamo poi che la vicenda ha una storia ben più lunga alle spalle e che questa inchiesta sulla cosiddetta trattativa fra lo stato e la mafia è un capitolo piuttosto ingarbugliato, per non dire di peggio, della nostra storia giudiziaria.
L’ostinazione dimostrata da alcuni inquirenti a portare in dibattimento un pezzo della travagliata storia dell’inevitabile “contatto” fra forze dello stato e strutture mafiose (basta aver visto qualche telefilm americano per sapere come queste cose sono la normalità, ovviamente se non configurano connivenze in reati) è nota. Ci permettiamo di dire che era degna di miglior causa: l’aver voluto a tutti i costi mettere in mezzo addirittura il Capo dello Stato, con intercettazioni il cui utilizzo la Consulta ha giudicato inammissibile, non è stato certo un momento alto della nostra civiltà giuridica.
Adesso bisogna sperare che la Corte d’Assise di Palermo davanti a cui sta svolgendosi con rito ordinario il processo da cui è stata stralciata la posizione dell’onorevole Mannino possa con la giusta rapidità giungere a fare chiarezza su una storia che si sta trascinando da troppo tempo e non certo a beneficio dell’immagine del nostro paese. L’impianto di tutta la vicenda gestita dalla pubblica accusa palermitana sulla cosiddetta “trattativa” appassiona i fan dell’una e dell’altra parte che si confrontano ora nell’aula di giustizia e dunque il giudizio, che vogliamo sereno e motivato, di un magistrato “terzo” fra i due contendenti sarà un importante contributo alla storia di questo paese. Non alla sua storia “politica” che non è di competenza dei magistrati, ma alla storia del suo sistema giuridico e giudiziario che a buon titolo vanta ascendenze e tradizioni storiche
di grande prestigio.
Da questo punto di vista dobbiamo dire che non abbiamo apprezzato la corsa del Pm Di Matteo a dichiarare che la procura avrebbe fatto ricorso contro l’assoluzione. Ben più saggiamente il procuratore capo Lo Voi ha specificato che prima si sarebbero lette le motivazioni. I tecnici sanno che da tempo è in atto un dibattito sul senso che può avere concedere ad un pubblico ministero di ricorrere contro una sentenza di piena assoluzione pronunciata da un giudice che rappresenta pur sempre lo stato nella sua garanzia di poter fare giustizia. Pensare che un giudice si sbagli platealmente al punto di dichiarare insussistente un fatto che invece è accaduto non è molto razionale, a meno di non pensare che quel giudice abbia agito con dolo e con superficialità estrema: ma sono due fattispecie che si devono presumere esistenti solo in rari casi eccezionali e che vanno adeguatamente documentate.
Dunque teniamoci per un po’ la soddisfazione che la dialettica fra accusa e difesa funziona a tutela dell’imputato se, come si usa dire, «c’è un giudice a Berlino» (in questo caso a Palermo, dove magari è più complicato esserlo di quanto non lo sia nella
capitale tedesca).