giovedì 26 novembre 2015

Il Sole 26.11.15
La minaccia senza fine all’integrazione europea
di Attilio Geroni


Purtroppo ha ragione Jean-Claude Juncker quando dice che Schengen è in coma e che questo stato comatoso mette in pericolo la stessa Unione monetaria. L’Europa dal 2009, con la Grande recessione importata dagli Stati Uniti dopo il caso Lehman, è entrata in un tunnel di instabilità senza precedenti dal dopoguerra. Perché dopo la recessione è arrivata la crisi debitoria dell’eurozona, accompagnata e poi seguita dalla crisi greca: entrambe hanno fatto materializzare per la prima volta il rischio di una reversibilità della moneta unica. Evitato nel pieno dell’estate il rischio Grexit, un’ondata senza precedenti di profughi in fuga dalle zone di guerra si è riversata dal Mediterraneo in Europa, risalendo la dorsale balcanica per raggiungere le nuove terre promesse del Nord, Germania e Svezia, non senza aver prima attraversato l’ostilità di Paesi come Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. È una catena di eventi, culminata con il ritorno su scala europea e globale della minaccia jihadista, che hanno messo e stanno mettendo a dura prova l’intera impalcatura istituzionale dell’Unione: europea e monetaria. Che senso ha, infatti, parlare di mercato unico se il bene più prezioso di questo mercato, la libera circolazione delle persone al suo interno, è seriamente minacciata, e non per motivi banali? Lo stesso discorso potrebbe valere per la moneta unica. Le stragi di Parigi invece di compattare l’Europa sull’emergenza migranti stanno, anche comprensibilmente, dividendo gli attori più importanti. Francia e Germania ieri su questo tema si sono trovati su fronti opposti. Prima che Angela Merkel si recasse da François Hollande, il premier francese Manuel Valls aveva detto chiaramente il suo Paese vuole un giro di vita sull’accoglienza di profughi. Un messaggio al quale la cancelliera ha risposto parlando al Bundestag: nessun passo indietro, ha detto, rispetto alla svolta politica di settembre, quando, primo fra i leader europei, promise che avrebbe aperto le porte ad almeno 800mila rifugiati in arrivo dalle guerre del Medio Oriente, in particolare siriani. Berlino, nonostante stia crescendo l’opposizione politica interna nei confronti di questo atteggiamento e con essa l’intolleranza dell’opinione pubblica, non vuole che i due fenomeni vengano mescolati e dice «no» a tutte le possibili strumentalizzazioni. Difficile però che ciò non avvenga in un contesto di rilancio continuo delle tensioni geopolitiche. E qui si torna a Schengen, ultima in ordine di tempo tra le impalcature istituzionali dell’integrazione europea ad essere messa alla corda, dopo l’euro e assieme al mercato unico. L’appello di Juncker non va lasciato cadere nel vuoto. Suggerisce un accordo stabile sul ricollocamento dei migranti perché uno sguardo retrospettivo alle crisi che bussano con sempre maggior insistenza alle porte dell’Unione ci mostra un pericolo costante per le sue diverse forme di governance e per le sue conquiste migliori, e della cui importanza potremmo renderci conto solo il giorno in cui, malauguratamente, dovessero venire a mancare.