giovedì 26 novembre 2015

Corriere 26.11.15
Fareed Zakaria
«La colpa di Erdogan Ha chiuso gli occhi sui jihadisti in Siria»
Cosa faremo per mettere ordine nella Siria liberata?
Senza risposta, sarà una nuova Libia
«Ma per batterli non servono le truppe sul terreno»
intervista di Paolo Valentino


«I o spero solo che Mosca non reagisca in modo sproporzionato. È evidente che i piloti russi hanno commesso un errore minimo, volutamente o meno, ma non c’è dubbio che la reazione turca è stata eccessiva, quasi cercassero l’incidente. L’abbattimento dell’aereo russo illustra purtroppo molto bene la complessità e i rischi di ogni azione militare in Siria. Ci sono sei Paesi attivamente coinvolti nelle operazioni: Turchia, Russia, Stati Uniti, Iran, Giordania e Francia. Non solo non sono coordinati, ma non sono neppure tutti sulla stessa linea, nel senso che non è sempre chiaro chi appoggi chi. Ma il problema più grave è che manca ogni coordinamento politico».
Al telefono da New York, Fareed Zakaria non risparmia critiche pesanti all’atteggiamento tenuto dalla Turchia nella vicenda siriana. Secondo l’analista della Cnn , uno dei più attenti studiosi del mondo globalizzato, «Ankara ha assunto una posizione assurda, priva di giustificazioni strategiche».
Può spiegarlo?
«Erdogan voleva la cacciata di Assad a ogni costo, ma quando ha visto che non ci riusciva, ha reagito consentendo a chiunque combattesse il regime siriano, fossero pure i jihadisti, di usare il territorio turco. Ankara lo nega, ma è confermato da tutti i rapporti d’intelligence. È stato un atteggiamento destabilizzante. L’altro errore è che l’unico gruppo che in effetti combatte Isis-Daesh, cioè i curdi, è stato contrastato dalla Turchia. Si può capire, vista l’esperienza con il terrorismo curdo. Ma è stata una reazione insensata: i curdi di cui parliamo vogliono solo creare una zona sicura tra Siria e Iraq e c’è un modo per negoziarlo anche con Ankara. Spero, ora che è stato rieletto, che Erdogan cambi atteggiamento. Ma non è detto. La sua politica estera era cominciata con lo slogan “zero problemi con i Paesi vicini” e oggi Ankara ne ha con tutti, dall’Egitto all’Iran. È uno dei rischi del mondo post americano: le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo sono più strategiche e sagge».
Lei rimane scettico sull’efficacia di ogni azione militare contro l’Isis, anche dopo Parigi. Perché?
«Perché dobbiamo essere misurati e seri su come conseguire gli obiettivi che ci siamo proposti. La domanda fondamentale è: una volta deciso di mettere i boots on the ground per sconfiggere lo Stato Islamico, cosa faremo per mettere ordine nella Siria liberata? Senza risposta a questo interrogativo, vedremo le stesse cose viste in Iraq, Libia, Yemen: vuoto di potere, caos politico, violenza jihadista, sangue. L’Isis si squaglierà, mimetizzandosi nel deserto o tra la popolazione, pronta a materializzarsi di nuovo non appena saremo partiti».
Ma il processo diplomatico iniziato a Vienna non è il binario parallelo che dovrebbe accompagnare l’azione militare?
«Non sono sicuro che una maggior pressione militare possa farci avanzare più rapidamente verso una soluzione politica. In Vietnam gettammo più bombe che in tutta la Seconda guerra mondiale: fu quello a portare i nordvietnamiti al tavolo negoziale? Ho qualche dubbio. Dobbiamo coinvolgere Russia e Iran a pieno titolo, lavorare con loro e individuare un’architettura politica che abbia senso: gli alawiti in Siria sono una minoranza del 14%. Si ripete lo scenario del Libano, con la minoranza cristiana, e dell’Iraq, con i sunniti, dove la ribellione della maggioranza contro la minoranza al potere, ha prodotto la guerra civile. In Libano è durata 15 anni, in Iraq continua. Ora tocca alla Siria e la chiave è come sempre trovare un posto a quella minoranza, che non può più governare, ma che non può essere eliminata. Credo che la soluzione sia quella di una “spartizione morbida”».
La sua riluttanza sull’intervento di terra rispecchia quella dell’amministrazione Obama. Sembra una situazione rovesciata rispetto al 2001: allora gli Stati Uniti sotto attacco erano per intervenire, mentre l’Europa frenava; oggi a essere attaccata è la Francia e sono gli europei (o meglio, alcuni) a spingere per l’ intervento e Washington a frenare.
«È vero solo in parte. L’aviazione Usa ha condotto 9 mila raid aerei contro l’Isis in Siria, la Francia alcune centinaia. Washington è pienamente impegnata. La riluttanza è nel cominciare a conquistare territorio, perché al momento nessuno sa dire cosa farne».
Siamo in guerra con l’Islam o è l’Islam in guerra con se stesso?
«Questo è soprattutto un conflitto interno al mondo islamico. Non è uno scontro delle civiltà. Isis è un’organizzazione sunnita che vuole sterminare gli sciiti, prendendo la loro terra e creando un Califfato wahabita. Certo, è anche anticristiana e antioccidentale. Ma non dimentichiamo che la ragione per cui attaccano la Russia è il suo coinvolgimento in Siria e così vale per la Francia.
È un’organizzazione settaria, limitata nella capacità geografica: non sono in grado di tenere a lungo i territori curdi, né possono contare su un forte appoggio di popolazioni locali anche nelle terre che controllano, come dimostrano i milioni in fuga».
Come li sconfiggiamo?
«Bisogna essere pazienti. Nessuna società può essere al 100% sicura quando gli attacchi avvengono in luoghi della vita quotidiana, come i caffè, i ristoranti. E in fondo il solo tentativo ambizioso del 13 novembre, quello allo stadio, è fallito. La sicurezza ha funzionato. Se coordiniamo le intelligence, blocchiamo le fonti di finanziamento, limitiamo la loro capacità di muoversi, i terroristi non possono vincere. Ma dobbiamo farlo senza isterismi. Mi preoccupa il fatto che in Europa stia prevalendo un’atmosfera di paura, un’onda di sentimento anti islamico. È grave perché ciò rischia di distruggere i fondamenti dell’Europa: apertura e integrazione, di cui oggi c’è più e non meno bisogno. I Paesi europei devono condividere più informazioni, avere migliori controlli alle frontiere esterne, avere procedure comuni per il diritto d’asilo, ma non chiudersi a riccio, cosa fra l’altro impossibile. Occorre più Europa».