giovedì 26 novembre 2015

Il Sole 26.11.15
Il «buon governo» che serve per una solida politica estera
di Paolo Pombeni


C’era un tempo fra gli storici un famoso dibattito, che fuori di loro temo nessuno ricordi, se ci fosse un primato della politica estera o uno della politica interna nel determinare l’impostazione dei sistemi politici e il loro orientamento. La questione nasceva nell’analisi della formazione dell’Impero tedesco nell’età di Bismarck e in quelle seguenti: in un primo momento si era sostenuto che tutto dipendeva dalla politica estera, poi no, che la politica interna era più importante di quel che sembrava. Il tema torna alla mente ora che in Italia si affaccia qualcosa di simile, almeno come situazione, perché la consapevolezza del problema non ci pare molto presente. L’attuale governo si trova davanti a una seria questione di politica internazionale, cosa a cui il nostro paese non è molto abituato. In Italia la politica estera è stata quasi sempre vissuta più che altro come un fatto ideologico quando non come una questione vagamente morale. Non che oggi queste tentazioni siano superate: la drammaticità della fiammata di attentati di matrice islamista verificatasi negli ultimi mesi è purtroppo favorevole a quel genere di approcci.
In realtà quanto sta accadendo è una sorta di rimessa in moto di processi che hanno l’obiettivo di stabilizzare l’area del Mediterraneo, che si percepisce ormai come un fattore troppo pericoloso che mette in crisi gli equilibri generali del sistema delle relazioni internazionali, se non si mette mano alla sua attuale situazione. Fatti eclatanti come l’incidente di confine fra Turchia e Russia sono la spia più evidente che le pedine si stanno muovendo sullo scacchiere, ma prossimi incontri internazionali già programmati vanno anch’essi in quella direzione.
L’Italia è un pezzo di quest’area, ha una certa posizione internazionale, e dunque è pienamente coinvolta, lo voglia o meno, in queste dinamiche. Il premier Renzi e il suo governo ne sono consapevoli, anche se non è del tutto chiaro quale sia la politica che intendono perseguire. Dopo impennate di dichiarazioni sull’insostenibilità della questione libica (oggi finita in secondo piano nonostante non sia cambiato nulla) abbiamo assistito a una estrema prudenza per quel che riguarda le nostre posizioni sulla questione siriano-irakena. Ora la prudenza è una buona virtù, ma se serve a preparare strategie e ruoli, cose di cui, almeno per ora, non si intravvedono che contorni piuttosto vaghi. È qui che entra in campo la questione della politica interna e il suo rapporto con quella estera. Per giocare un ruolo significativo sulla scacchiere internazionale, un governo deve poter godere di una apprezzabile solidità interna. Non solo perché così può muoversi senza guardarsi le spalle in parlamento, ma anche perché avrà minore se non scarso peso negoziale se i suoi partner e i suoi avversari nell’arena internazionale sanno che non è solido in casa propria.
Nel momento in cui giocoforza Renzi deve sedersi al tavolo della stabilizzazione dell’area del Mediterraneo non è invece in buone condizioni sul fronte interno. Il problema in questo caso non sono tanto le fiammate populistiche che vengono dalle opposizioni: quelle ci sono in tutti gli stati occidentali e i vari governi ci fanno abbondantemente la tara. Certo da noi hanno una fascia di consenso molto vasta (basta vedere i sondaggi che danno addirittura il M5S in leggero vantaggio sul Pd in caso di ballottaggio) ma sono anche frutto di umori che in parte possono essere riassorbiti.
Il lato debole del governo è il suo partito e la sua più ampia area di riferimento, così divisi in fazioni e così disastrati a livello di classi dirigenti locali da non dare garanzia di tenuta nella prospettiva delle prossime elezioni amministrative. Il consenso si costruisce a partire da una rete di buon governo sul territorio, perché è lì che si radica la fiducia dei cittadini verso la “politica”. Quando quella traballa, nasce la tentazione di surrogarla dimostrando quanti benefici può distribuire il governo centrale. Qui si cade in una china pericolosa e qualcosa si sta vedendo nella gestione della legge di stabilità. Distribuire benefit (chiamiamoli così) a destra e a manca non solo finisce per essere una politica populista di segno rovesciato, ma spinge alla moltiplicazione delle richieste in un contesto in cui davvero è difficile immaginare che ce ne sia per tutti.
Si chiude così, anche senza volerlo, il cerchio con la questione della politica internazionale. Un ruolo importante in quel campo richiede sia risorse immediate che risorse messe da parte per le emergenze: un’impresa difficile se non impossibile nel quadro che abbiamo appena descritto. Eppure senza consenso non si fa una efficace politica estera, e dunque ecco in campo il corto circuito con tutte le conseguenze del caso. Converrebbe dunque che da un lato il paese fosse preparato a riflettere in maniera adeguata sul delicato momento in cui si trovano le relazioni internazionali e che dall’altro fosse guidato con mano sicura verso una gestione responsabile del rinnovo dei governi dei territori. I due aspetti sono molto più legati di quel che sembra ad un dibattito pubblico distratto dai soliti dibattiti pseudo-ideologici. Peccato che anche troppi gruppi dirigenti delle maggiori forze politiche lo siano altrettanto, illudendosi che possa essere rinviata a tempi migliori una seria presa in carico della complessa situazione in cui ci troviamo.