il manifesto 4.11.15
Rabin e il lento suicidio di Israele
Vent'anni dopo. «La pace si negozia con i nemici - ripeteva con forza - e la faremo ad ogni costo»
A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola - quasi una riedizione di quelli sparati a Sarajevo - chiusero la prima porta verso la pace
di Giuseppe Cassini
Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è iniziato il cammino d’Israele verso il suicidio: è iniziato 20 anni fa, il 4 novembre 1995, con l’assissinio di Rabin per mano di un ebreo estremista. Il mese prima eravamo al Vertice di Amman: le parole di Rabin e dei leader palestinesi lasciavano presagire compromessi imminenti e risolutivi. Incontrai Rabin un’ultima volta a cena: i suoi occhi di un azzurro intenso, ogni volta che ti fissavano infondevano fiducia e un senso di visione. «La pace si negozia con i nemici — ripeteva con forza — e la faremo ad ogni costo». Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola — quasi una riedizione di quelli sparati a Sarajevo — chiusero la prima porta verso la pace.
Poi fu un seguito di occasioni sprecate. Marzo 2002, al Vertice della Lega Araba a Beirut vedemmo il re saudita presentare un piano di pace impeccabile, accettato da tutti membri della Lega Araba. Ecco, finalmente ci siamo — pensavo io — ma Tel Aviv la pensava diversamente. Gennaio 2006, elezioni in Palestina e vittoria di Hamas a Gaza: Israele spinse Usa e Ue a disconoscerne i risultati, benché gli osservatori internazionali confermassero che le elezioni si erano svolte senza brogli. Il resto del mondo ironizzava: democrazia à la carte? Luglio 2006, Tsahal seminò di morte mezzo Libano per eliminare Hezbollah e i suoi razzi artigianali; oggi Hezbollah possiede missili a lunga gittata (altro che razzi!) in grado di colpire mezzo Israele. E poi 2008, 2009, 2012, 2014: Tsahal martellò Gaza nel tentativo di eliminare razzi, tunnel e capi di Hamas (quel partito che Israele stesso aveva aiutato a nascere per destabilizzare al-Fatah), al prezzo di migliaia di vittime civili, senza pietà verso feriti e rifugiati negli ospedali e nelle scuole dell’Unrwa.
A che pro? Per farsi condannare dall’ONU un’ennesima volta e istillare nuova linfa nella resistenza palestinese. Ecco, infatti, la Terza Intifada. Chi viaggia oggigiorno in Terrasanta non trova traccia dello spirito ideale dei kibbutz, incrocia piuttosto gruppi di ortodossi che ti squadrano con occhiate lampeggianti di fanatismo; e se cammini di sabato nei loro quartieri puoi beccarti anche qualche sassata. Forte della sua maggioranza alla Knesset, Netanyahu conduce lentamente il Paese al suicidio invitando ebrei invasati ad occupare terre non loro, rendendo impossibile la soluzione dei due Stati, invitando i suoi concittadini ad armarsi, erigendo muri su muri, umiliando i palestinesi moderati… e lo stesso Obama davanti al Congresso. Sostenendo infine (lui figlio di uno storico!) che il progetto dell’Olocausto fu ispirato a Hitler dal Gran Mufti di Gerusalemme. Quos Deus vult perdere, dementat prius.
È proprio vero: a coloro che vuol rovinare, Dio toglie anzitutto la ragione. Identificare il popolo ebraico con lo Stato israeliano finisce per «giustificare» — in una logica uguale e contraria – il dilagare dell’antisemitismo in Europa. E presto anche in America. Già ora gran parte dei Democratici, che un tempo erano i più ossequienti alle «ragioni» d’Israele, hanno preso le distanze. Lo stesso Obama, un tipo in genere assai calmo, ha perso le staffe più volte. Memorabile lo scambio di battute fuori onda con Sarkozy al G20 di Cannes nel 2011: «Non ne posso più di Netanyahu, è un bugiardo!» aveva bisbigliato Sarkozy; e Obama di rimando: «Lo dici a me che devo trattare ogni giorno con lui?».
I sionisti americani che vedono in Israele la realizzazione in terra delle profezie bibliche – tipi come il pastore John Hagee, faccia e stazza texana, che benediva i raid israeliani con prediche ispirate («L’umanità verrà giudicata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – sarebbero capaci con pari fanatismo di riabbracciare l’antico antisemitismo se un giorno si risvegliassero con questa domanda: possibile che un piccolo Stato straniero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo? Non per niente Israele si guarda bene dal seguire gli altri 123 membri dell’Onu che hanno aderito alla Corte Penale Internazionale: perché il suo obiettivo non è di accettare la sfida nei processi, bensì di star fuori dai processi (perciò Berlusconi faceva il tifo per Netanyahu). L’occupazione militare sta mettendo in pericolo la sicurezza stessa che dovrebbe tutelare. E le destre europee e americane, persistendo a garantire l’impunità ad Israele, stanno in realtà scavandogli la fossa: l’ha capito prima degli altri l’ex-presidente della Knesset, Avraham Burg, quando ha scongiurato di “salvare Israele da se stesso”.