mercoledì 4 novembre 2015

il manifesto 4.11.15
Rabin, un mito distante dalla realtà
Rabin vent'anni dopo. Fu lontano dalla visione di uno Stato palestinese indipendente e vicino a una visione di autonomia
di Zvi Schuldiner


A vent’anni dall’assassinio dell’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, le commemorazioni si pongono in antitesi — drammaticamente — rispetto agli accadimenti nelle ultime settimane in Israele. In questi giorni Rabin è un mito. Ma molto lontano dalla realtà. È fonte di amarezza il fatto che molte persone si siano recate alla cerimonia principale a Tel Aviv non tanto per commemorare quanto nell’illusione che rinnovare il mito contribuisca a far penetrare una tenue speranza nello spirito di chi vede in questi giorni un capitolo nero, suscettibile di condurre a un finale tragico.
Il governo di Netanyahu è incapace di rispondere ai fatti delle ultime settimane. Gli attacchi palestinesi hanno creato un panico generale ingiustificato alimentando la politica della paura. Come abbiamo già segnalato sul manifesto, la reazione governativa si limita a immaginare soluzioni di forza senza alcuna reale alternativa politica.
L’estrema destra ha gettato altra benzina sul fuoco e l’incendio si è generalizzato: ogni palestinese israeliano o di Gerusalemme o dei territori occupati è diventato un possibile attentatore. Di conseguenza, ogni palestinese è un possibile obiettivo delle «forze di sicurezza» e delle orde fasciste che crescono ogni giorno che passa. Qualunque palestinese voglia prendere un autobus o recarsi al lavoro deve aver paura di essere attaccato o quantomeno sospettato. Così, può aspettarsi nella migliore delle ipotesi botte da orbi, e nella peggiore, di essere ferito o ucciso. Anche un israeliano ebreo è stato ucciso per sospetto…«Stiano all’erta tutti i soldati, i poliziotti, i cittadini», ripetono i nostri saggi ministri; e così gli isterici che ascoltano, per paura o per fare gli eroi si mettono a sparare contro innocenti, e ad arrestare ogni cittadino palestinese come persona sospetta.
Quando il primo ministro Netanyahu scagiona Hitler dalla responsabilità di aver concepito e messo in opera l’eliminazione degli ebrei, gettando la colpa sul Muftì dell’epoca, è evidente che non lo fa per ignoranza. Il suo messaggio agli israeliani è chiaro e semplice: tutti gli arabi e i musulmani sono nazisti, assassini potenziali. Perciò con loro è impossibile trattare.
L’incendio si allarga e l’opposizione non dà prova di avere forza reale né fa udire una voce chiara e diversa. Davanti alla disperazione di tanti, è evidente che far resuscitare il mito di Rabin è una necessità a livello politico pubblico e a livello psicologico individuale. Rabin fu il grande generale della vittoria del 1967. Poco dopo, ritiratosi dall’esercito, fu ambasciatore negli Stati uniti, mostrando una grande ammirazione per Henry Kissinger — e non è necessario qui soffermarsi sulla natura criminale dell’operato politico di quest’ultimo.
La guerra del 1973 fu dura e richiese un grande prezzo in termini di soldati isralieliani uccisi, rendendo evidente che la leadership dei vecchi laburisti se ne doveva andare. Rabin, il brillante generale che doveva cambiare l’immagine di una leadership screditata, diventa primo ministro per la prima volta nel 1974. Sono gli ultimi giorni di potere di una socialdemocrazia svilita; è un periodo pieno di casi di corruzione. Nel 1977 Rabin si dimette e i laburisti perdono le elezioni. Il generale è un buon amico di altri generali. Alcuni sono alquanto problematici, come quelli della dittatura argentina, altri sono come Ariel Sharon, il ministro della difesa che nel giugno 1982 dà avvio alla guerra del Libano e si avvale dei consigli di Rabin, veterano di una guerra vittoriosa.
Nel 1984, il Likud e il Partito laburista si vedono obbligati a formare un governo di coalizione, con Peres come primo ministro per due anni. Gli succede Shamir del Likud, ma il posto di ministro della difesa viene assicurato a Rabin per i quattro anni di durata della coalizione. È il Rabin della repressione della prima Intifada, dell’ordine di «spaccare le ossa ai manifestanti», della chiusura delle scuole per oltre un anno.
Rabin era parso poi arrivare a concepire un futuro nel quale Israele non esercitasse un predominio diretto sui palestinesi. Al tempo stesso fu sempre lontano dalla visione di uno Stato palestinese indipendente e molto vicino a una visione di autonomia, o di territori palestinesi sotto il controllo della Giordania. Alla firma degli accordi di Oslo, le mosse del governo israeliano non erano abbastanza chiare da far pensare che Israele volesse una pace duratura. Rabin non sembrava disposto ad adottare la formula dei due Stati per due popoli. Le tante contraddizioni del processo saltavano agli occhi.
Oslo sembrava una promessa di un futuro migliore, ma al tempo stesso il processo con tutta evidenza non appariva molto favorevole a una vera pace. La durezza dell’occupazione e le confische delle terre palestinesi proseguivano. Rabin non sembrava disposto ad affrontare con decisioni anche drammatiche la difficile realtà dell’occupazione. Nel febbraio 1994, quando Baruch Goldstein, un criminale estremista, medico nella colonia di Kiriat Arba, vicino a Hebron, entrò nella tomba del patriarca a Hebron assassinando diciannove palestinesi, la repressione dell’esercito arrivò a uccidere oltre dieci palestinesi che protestavano contro il massacro, e Rabin negò l’espulsione dalla città di Hebron di cinquecento coloni israeliani che da tempo fomentavano l’odio con continue provocazioni.
Quale sarebbe la famosa eredità di Rabin di cui tanti si riempiono la bocca? È molto difficile saperlo, dal momento che lo stesso Rabin non si espresse mai chiaramente a favore della formula dei due Stati, né sostenne mai la creazione di uno Stato palestinese. In effetti, se in occasione del comizio al quale partecipava il giorno del suo assassinio, egli sembrava sbilanciato in favore di un progetto di pace, non era tuttavia chiaro il prezzo che fosse disposto a pagare in termini di territorio, né la formula reale che intendesse applicare.
La morte violenta lo trasformò in un martire al servizio della pace. Negli anni successivi, fu quasi dimenticato. Uno studente con il quale ho discorso negli ultimi giorni non sapeva quali incarichi e quale storia avesse avuto Rabin, e quale fosse il reale significato del suo assassinio, decretato dagli estremisti di destra nel corso di una campagna crudele — nella quale si fece notare anche l’attuale premier Netanyahu. L’«eredità» non è chiara, e oggi davanti alla mancanza di una vera leadership alternativa, tocca all’ex presidente Clinton (!) parlare nella cerimonia centrale di commemorazione, con una sinistra e un mondo pacifista profondamente debilitati, e mentre in molti si chiedono se il processo non stia arrivando a esiti tragici.
Vent’anni dopo, solo il possibile legato di Oslo sembra in grado di ispirare un po’ di ottimismo, in questo periodo nerissimo della storia di Israele. Non è solo la questione della pace: la strada che porta a un possibile trionfo del fascismo, con un’alleanza tra fondamentalisti e nazionalisti, mette in pericolo le componenti della società israeliana e allontana in modo drammatico le possibilità di intraprendere un cammino pacificatore che ponga fin al conflitto israelo-palestinese.