domenica 29 novembre 2015

il manifesto 29.11.15
I poliziotti lo dicono: il caso Shalabayeva era «deciso in alto»
Angelino Alfano Trema. Dalle carte dell'inchiesta risulta che la moglie del dissidente kazako aveva chiesto l’asilo sette volte. Per il sequestro sono indagati 7 agenti e una giudice di pace. Interrogazione M5S e Si, ma il governo resta muto
di Andrea Colombo


Angelino Alfano? Chi l’ha visto. Matteo Renzi? Muto come un pesce. In barile. Alma Shalabayeva? E chi è? Con l’eccezione di Si e dell’M5S l’establishment politico e istituzionale si trincera dietro lo schema classico delle tre scimmie: nessuno ha visto, nessuno ha sentito, soprattutto nessuno avverte l’urgenza di parlare.
In un qualsiasi Paese democratico le cose andrebbero all’opposto, anche se r vero che in un Paese di quel tipo il problema non sussisterebbe perché il ministro degli Interni non sarebbe più tale da un pezzo, dopo il rapimento di Stato Shalabayeva.
La Procura di Perugia e i Ros, che hanno iscritto nel registro degli indagati sette poliziotti, tre funzionari dell’ambasciata kazaka e la giudice di pace Stefania Lavore, hanno accertato che per sette volte, da quando venne “prelevata” con la figlia dalla sua abitazione di Casal Palocco il 29 maggio 2013 a quando, il 31 maggio, venne caricata a forza sull’aereo diretto in Kazakhistan, la moglie del dissidente Mukthar Ablyazov chiarì la propria posizione. Illustrò, implorò, parlò delle torture subite dal marito in patria, ripetè che sarebbe stata considerata dal regime del “presidente” (da 25 anni) Nazarbaev un ostaggio, invocò invano il rispetto della la legge.
La legge in quei tre giorni era però sospesa: almeno su questo c’è certezza. Per ordine di chi, e con quali complicità, invece resta oscuro, e pochi, nel Palazzo, sembrano interessati ad accertarlo. I sette poliziotti, tra cui l’allora capo della Mobile Renato Cortese e il capo dell’ufficio Immigrazione Maurizio Improta sono indagati, oltre che per sequestro di persona, per omissione d’atti d’ufficio e falso, il che in realtà offre un comodissimo scudo ad Alfano. Lui non ne sapeva niente: lo avevano tenuto all’oscuro come se si trattasse di un qualsiasi pizzardone anziché del ministro.
Potrebbe essere vero, considerato il carisma dell’uomo. Ma è impossibile pensare che Cortese e Improta abbiano deciso il sequestro solo per ammazzare la noia, senza che nessuno desse l’adeguato ordine. O che la giudice Lavore, in forza all’epoca presso il Cie di Ponte Galeria dove fu ’tradotta’ la rapita e senza il cui assenso la brillante operazione non sarebbe andata in porto, abbia solo ceduto a un attimo di distrazione. Di certo non è quello che lei stessa raccontava, in una telefonata intercettata dopo il fattaccio: «Mi avrebbero schiacciato…Ho fatto pippa…Non ho sputtanato nessuno… Hanno pagato il mio silenzio…I panni sporchi si lavano in famiglia». Non dovrebbero essere solo i giudici a chiedere alla brillante giudice di pace da chi temeva di essere schiacciata. In un caso del genere sarebbe dovere del Parlamento reclamare la verità, e senza accontentarsi delle arrampicate sugli specchi in cui si produsse a suo tempo Alfano.
Neppure gli agenti in servizio nell’ultima fase del rapimento, con Shalabayeva che già sulla scaletta dell’aereo tentava ancora una volta di difendere il proprio diritto a restare in Italia, credevano che il tutto fosse stato partorito da un gruppetto di poliziotti troppo solerti: «Tutto è già stato deciso ad alto livello». Senza contare che l’indagine di Perugia ha accertato che aereo e pilota erano stati messi a disposizione, sia pur per via indiretta, dall’Eni. Basta e avanza per essere certi che in quella rendition erano davvero coinvolti interessi di altissimo livello, e che il petrolio kazako la faceva da protagonista. Però per smuovere la polizia trasformando gli agenti in complici attivi di un sequestro di persona a livello internazionale non basta nemmeno l’interessamento dell’Eni. L’ordine deve aver seguito le vie gerarchiche. Deve essere stato dato da qualcuno a cui gli agenti non potevano non obbedire.
La stessa Shalabayeva, tornata in Italia ma ancora tanto terrorizzata dal regime di Nazarbaev da voler mantenere il segreto su generalità e domicilio, dice di avere massima fiducia nei magistrati italiani e aggiunge che la maggiore responsabilità è dei diplomatici kazaki: come se sul fatto potesse esserci qualche dubbio.
Paole ovvie, adoperate nei giorni scorsi come una specie di attestato di fiducia nei confronti del ministro Alfano. In realtà Alma Shalabayeva aggiunge che di sicuro «il regime kazako non si è mosso da solo». Chissà se nei prossimi giorni a qualcuno oltre a Si e all’M5S, in Parlamento, verrà in mente di reclamare chiarezza. O se le scimmiette cieche sorde e mute continueranno a essere non tre ma diverse centinaia.