Corriere La Lettura 22.11.15
Demografia
L’uomo va a più velocità, il mondo no
Analisi senza catastrofismi della crescita della popolazione: impetuosa in Africa, ferma in Europa
di Sandro Modeo
Rispetto al «tempo profondo» dell’evoluzione (miliardi di anni), tutto è avvenuto in una sequenza relativamente breve: 10-12 mila anni, il periodo intercorso fra la prima transizione dell’ Homo sapiens (il passaggio neolitico dalla caccia-raccolta all’agricoltura-allevamento, dal nomadismo alla stanzialità) e quella attuale, innescata dalla rivoluzione industriale. In quello scarto, noi umani siamo aumentati di mille volte (da 10 milioni ai probabili 10 miliardi del 2100); sempre di mille volte abbiamo visto contrarsi lo spazio pro-capite (da un quarto dell’isola di Manhattan alla superficie di un campo da calcio); mentre abbiamo aumentato «solo» di cento volte — dal traino animale alle fibre ottiche — il consumo individuale di energia.
È un’invasione antropica della Terra — incipit del nuovo libro del demografo Massimo Livi Bacci, Il pianeta stretto — che non sembra risparmiarne una sola molecola: se oltre metà dei suoi 134 milioni di chilometri quadrati erano occupati, già nel 1990, soprattutto da coltivazioni e pascoli (ma anche da strade, ferrovie e porti), la percentuale restante (boschi e foreste, ghiacci e deserti) risente ormai comunque, sul piano climatico e della biodiversità, della nostra presenza. Il punto è che la chiave interpretativa di quest’invasione e delle sue conseguenze per il pianeta e per noi stessi — di tanti disagi economici, sociali, sanitari, psicologici — consiste proprio nella questione demografica; una questione ormai rimossa o ridotta da tanti analisti a fantasma latente, quando invece potrebbe essere la spiegazione che vanno cercando e che hanno sotto gli occhi, un po’ come la «lettera rubata» del racconto di Poe.
Riprendendo e integrando, col Pianeta stretto , la ricognizione svolta nell’ormai classica Storia minima della popolazione mondiale , Livi Bacci ha quindi il merito primario di riportare dallo sfondo al primo piano i processi demografici. Processi che hanno a lungo registrato a livello globale un sostanziale «equilibrio» tra nascite e morti, nonostante un trend ascendente a sua volta compensato da guerre, shock climatici e epidemie: 100 milioni di abitanti nell’età del bronzo, 250 allo scoccare dell’era cristiana, 750 all’inizio della rivoluzione industriale. È proprio qui che subentra il break con le sue enormi implicazioni, dato che a un primo raddoppio (da 1 a 2 miliardi tra 1800 e 1927) ne seguono un secondo (da 2 a 4 tra 1927 e 1974) e un terzo (da 4 a 8 entro il 2023), con la cifra di proiezione (i citati 10 miliardi del 2100) che vede in ogni caso nel secolo in corso un incremento assoluto più o meno pari a quello novecentesco.
Nella cornice di questo squilibrio, Livi Bacci ricostruisce l’asincronia-asimmetria decisiva: quella tra i tempi dei Paesi occidentali (dove il salto demografico è cominciato a inizio Ottocento e si è concluso con la generazione baby-boom del Novecento) e quelli dell’Africa (specie sub-sahariana) o di certe aree asiatiche, dove invece il processo è cominciato nella seconda metà del Novecento e si concluderà nei prossimi decenni. A sintesi-emblema, bastino, tra i tanti, un paio di dati: quello che vedrà la stessa Africa subsahariana passare nei prossimi 35 anni da 962 a 2.123 milioni di abitanti (un largo raddoppio) e quello che vedrà il rapporto Russia-Pakistan capovolgersi simmetricamente (nel 1950 i russi erano il triplo dei pakistani, nel 2050 saranno un terzo). È una diffrazione che si traduce in un opposto quadro prognostico-diagnostico: tanti Paesi occidentali dovranno rilanciare la natalità per pagare le pensioni, affrontare i costi di vecchiaie prolungate e non delegare il rimpiazzo generazionale solo ai migranti; tanti Paesi africani e asiatici dovranno invece ridurla d’urgenza, eleggendo le pratiche contraccettive a timone operativo, ma anche diminuendo la mortalità infantile (dissuasione a fare tanti figli) e diffondendo istruzione e consapevolezza, chiavi per un contenimento demografico non più legato a pratiche come l’aborto selettivo sulle femmine.
Riconducendo alla pressione demografica anche il mutamento climatico (vedi l’aumento di 80% di gas serra, tra 1970 e 2010, dovuto per il 50% proprio all’incremento di abitanti), i flussi migratori (compensazioni redistributive tra Paesi ricchi e invecchiati e altri poveri e giovani) e gli assetti socio-economici (con la definitiva e crescente prevalenza di addensamenti urbani rispetto alle campagne), Livi Bacci, pur non condividendo posizioni apocalittiche, sembra distanziarsi anche dai teorici della «fine della demografia». Da chi, cioè, intravede all’orizzonte una sorta di assestamento che porterà le popolazioni a stabilizzarsi di numero e le migrazioni ad azzerarsi. E questo suo sguardo oggettivo — intrinseco alla disciplina demografica — ci aiuta a considerare i dati senza ombre ideologiche: per esempio, quelli su certi flussi migratori (il +83% di musulmani nell’Ue «a 27» tra 1990 e 2010), di cui nessuna retorica dell’accoglienza può velare l’impatto problematico; o quelli su certi deficit di volontà politica (i 7-9 miliardi di dollari utili contro Aids, malaria e Tbc in Africa ammontano a metà fra un terzo e un quarto delle esportazioni mondiali di armi 2013), che nessuna retorica può far digerire.
Non tutto, nel percorso di Livi Bacci, ha la giusta messa a fuoco: le categorie di Eros e Thanatos come equivalenti dell’«istinto riproduttivo» e dell’«istinto di sopravvivenza» suonano quanto meno ambigue. In compenso, circola nel libro un costante contrappunto ironico, come nell’evocazione di Simeone lo Stilita, il monaco siriano del IV-V secolo d.C. vissuto per 37 anni in cima a una colonna nutrendosi al minimo, e quindi eletto a «modello per l’ambientalismo più estremo». È un utile esorcismo verso visioni meno lievi: non tanto o non solo quelle di futuri sovrappopolamenti distopici, quanto quelle — in cui siamo già immersi — di tante megalopoli-mondo e delle loro disagiate periferie.