domenica 22 novembre 2015

Corriere La Lettura 22.11.15
La scuola non (si) orienta
Il sistema è inadeguato ai tempi
Sapere non significa saper fare
E sembra ancora che solo i licei valgano
di Francesco Dell’Oro


In questi mesi, nelle aule scolastiche delle scuole secondarie di primo grado, si respira un’aria mefitica che raggiunge e avvelena le ragazze e i ragazzi delle classi terze. È un’aria viziata che trasmette un messaggio che divide, ferisce e crea imbarazzo. Fa danni. È noto a tutti ma è opportuno ricordarlo: «Quelli bravi vanno al liceo, i meno bravi agli istituti tecnici, quelli in difficoltà agli istituti professionali o ai corsi di istruzione e formazione professionale». Una curiosa indicazione interpretata in termini ancora più esclusivi da molti genitori, per i quali nell’arena scolastica esistono solo due corsi: il liceo classico e lo scientifico. Con alcune conseguenze negative che conosciamo.
Il messaggio fa riferimento a gerarchie molto opinabili, a un diabolico retaggio che ha determinato la maledetta separazione fra il sapere e il saper fare. Fra le conoscenze e le capacità operative. Eppure, paradossalmente, mentre confermiamo la sua inaffidabilità, dobbiamo purtroppo riconoscere che questo schema improvvido è figlio della nostra organizzazione scolastica. Non considerarlo, almeno con uno sguardo di riguardo, potrebbe determinare preoccupazioni e guai.
In una classe terza di una scuola media a Milano, la maggior parte degli alunni manifestava il desiderio di iscriversi al classico o allo scientifico. Due ragazze dimostravano un interesse per il liceo linguistico e un ragazzo per il liceo artistico. Solo un ragazzino del secondo banco rimaneva in silenzio. Incoraggiato a esprimersi, disse sottovoce e quasi vergognandosi, perché non voleva che i suoi compagni di classe lo sentissero: «Io vado all’istituto tecnico».
Uno dei problemi più importanti della scuola riguarda la formazione e la sensibilità pedagogica di molti insegnanti. È una grande verità che non vogliamo evidenziare semplicemente perché temiamo la loro reazione e quella delle associazioni e istituzioni che, in modo sciagurato e testardamente, ostacolano un cambiamento in tale direzione. Mi riferisco a organizzazioni che, dimostrandosi sempre più autoreferenziali e preoccupate del consenso, non vogliono o non riescono a immaginare il futuro dei nostri figli. Hanno un unico obiettivo: difendere e sostenere un’organizzazione scolastica più funzionale a un sistema rigido e immodificabile di materie, ruoli, orari e programmi piuttosto che alla valorizzazione dei talenti delle nuove generazioni. Una specie di catafalco che trasuda un sapere che avvicina solo alcune anime elette e che rischia di non considerare e di umiliare persone che un sistema inadeguato di valutazione tende a iscrivere superficialmente al club dei Lucignoli. I non capaci.
Il consiglio orientativo che, a breve, gli insegnanti consegneranno ai loro studenti non deve trascurare il quadro scolastico, senza dimenticare che ciò che hanno appreso non sempre rappresenta la loro intelligenza, ma, in particolare, si qualifica se riesce a essere un fedele interprete del loro percorso formativo: le figure significative incontrate e quelle inadatte all’insegnamento. Le situazioni positive e problematiche, i successi e gli insuccessi. Le ragazze e i ragazzi che incontriamo quotidianamente sono il risultato della loro storia e dei loro vissuti. E non solo scolastici. Grande attenzione deve essere data anche ai tratti della loro personalità: la capacità critica, la disponibilità a modificare un modello organizzativo inadeguato, i livelli di consapevolezza, le passioni, le emozioni, eventuali interessi, la sensibilità e la qualità delle relazioni.
Il consiglio orientativo formulato dagli insegnanti, invece, rischia di essere imbrigliato in una logica troppo scolastica. Privo di un respiro pedagogico, non valorizza le potenzialità delle persone, ma è anche il segnale preoccupato di un’organizzazione delle scuole secondarie di secondo grado che, a parte alcune eccezioni, è fondata su un sapere vecchio. Obsoleto. Frammentato in testi e programmi assurdi, piegati al compiacimento di un insegnamento, in troppi casi, autoreferenziale e non utile.
Dovremmo preoccuparci, invece, molto di più dell’apprendimento. Gli adolescenti non sono dei contenitori da riempire con quintali di informazioni, peraltro soggette a rapida obsolescenza. Eppure quando esercitiamo il nostro ruolo di insegnanti in questo modo, siamo soddisfatti. Sicuri di aver fatto un buon lavoro. Evidentemente non siamo consapevoli di aver dato una pessima rappresentazione del nostro ruolo in quella materia di cui siamo i titolari.
È davvero difficile superare l’immagine della cattedra altare, a volte inavvicinabile, e i banchi dei fedeli devoti. La scuola, intesa come un laboratorio di ricerca, a tutt’oggi, risulta essere ancora un semplice sogno. Un desiderio spezzato. Un ragazzo di una scuola media di Roma mi ha scritto: «La scuola è una palla, ho capito che è importante ma almeno rendetela divertente».
La scuola richiede impegno e fatica. Una condizione che viene accettata dalla maggior parte dei nostri adolescenti quando l’insegnamento riesce a innescare un minimo di passione, di interesse e tanta, tanta curiosità. La responsabilità degli insegnanti, in particolare nella fase dell’orientamento scolastico ma anche nella pratica quotidiana, è enorme. Non si tratta di pensare a una semplice scelta scolastica, ma alla qualità della vita delle persone.
I dati sugli abbandoni scolastici e sul numero di laureati collocano il nostro Paese in una posizione poco invidiabile in Europa. Sono l’immagine di una scuola in difficoltà. Una scuola che non riesce, ad esempio, a sostenere e valorizzare le ragazze e i ragazzi più fragili. I meno fortunati. Preoccupata, in questi casi, di stabilire obiettivi ancora troppo scolastici. Ma è anche una scuola che non sa interpretare quest’onda anomala di adolescenti dislessici, discalculici, disgrafici e disortografici. La legittima soddisfazione per gli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalla legge 170/2010 non deve ostacolare una rivisitazione dei metodi di insegnamento. Mi riferisco alla possibilità che deve essere concessa ai bambini di imparare a leggere, a scrivere e a far di conto con tempi più distesi. Con tecniche adeguate e senza quella maledetta valutazione che ammorba ancora le scuole primarie. Con buona pace di alcune certificazioni tecnico-sanitarie che lasciano senza parole. Su questi temi, meno convegni e più onestà intellettuale e buon senso.
La valutazione scolastica e, in particolare, le modalità utilizzate nel trasmetterla, in molti casi, diventano un’arma impropria che ferisce le persone invece di rimotivarle. L’errore fondamentale è quello di pensare che le ragazze e i ragazzi che entrano nelle nostre aule scolastiche siano semplici studenti. No! Sono bambini e adolescenti che vanno a scuola. Persone che stanno attraversando una delle fasi più belle, ma più complesse della loro vita. Il consiglio orientativo non può limitarsi a individuare le capacità e le difficoltà delle persone. Occorre affidare, alle nostre competenze, una particolare sensibilità nel riconoscere le loro potenzialità. Esercizio paradossalmente fuorviante e, addirittura, dannoso se espresso dai soli insegnanti delle scuole secondarie di primo grado. Serve un cambio di marcia, un diverso respiro pedagogico, anche nelle scuole secondarie di secondo grado.
La capacità di lavorare in gruppo e in autonomia, la comunicazione scritta e orale, la relazione con i clienti, il problem solving , la flessibilità e l’adattamento, la capacità di analizzare e sintetizzare le informazioni vengono segnalate dalle aziende private italiane come le competenze più richieste e importanti per l’organizzazione del lavoro. La nostra scuola sta andando in questa direzione? Forse ci si sta provando ma, al momento, la risposta è ancora negativa.
Queste considerazioni possono innescare opinioni e pensieri di segno contrario, anche irritazione, ma se non modifichiamo il catafalco di materie, di orari, di programmi e di assurdi criteri di valutazione che negli anni abbiamo consolidato e che continuiamo a sostenere, noi troveremo la nostra scuola sempre fanalino di coda dei Paesi europei. Forse, un filosofo e epistemologo austriaco può aiutarci: «Quando si ricerca la verità, può darsi che il criterio migliore sia quello di cominciare col criticare le nostre credenze più care». (Karl Popper, Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza , Il Mulino). Nella scuola serve aria fresca.