domenica 8 novembre 2015

Corriere 8.11.15
Gli 82 secondi delle due Cine
Una lunga stretta di mano tra i leader della Repubblica popolare e Taiwan (dopo 66 anni). Che però si sono rivolti l’uno all’altro con «signore»
di Guido Santevecchi


PECHINO «La stretta di mano del secolo è durata ottantuno secondi», ha annunciato la tv di Taipei. Il primo a tendere la mano è stato Xi Jinping, in un gesto studiato per riaffermare la superiorità della Repubblica popolare cinese su Taiwan, considerata da Pechino una provincia ribelle: «Buon pomeriggio, rispettato signor Ma Ying-jeou», ha detto al presidente della Repubblica di Cina (Taiwan), che ha sorriso a lungo. Tutti d’accordo nel definire l’incontro storico, perché dal 1949, quando Chiang Kai-shek si rifugiò sull’isola con i resti del suo esercito sconfitto dall’armata comunista di Mao Zedong, la guerra civile tra le due parti dello Stretto non è ancora finita, la Cina ha sparato gli ultimi missili attraverso lo Stretto nel 1996.
Xi e Ma, non riconoscendosi ufficialmente come presidenti, si sono chiamati «signore». Incontro in campo neutro, un albergo di Singapore. I due avversari hanno scelto parole ispirate: «Nessuna forza può separare Cina e Taiwan, i popoli delle due sponde dello Stretto sono una sola famiglia. Il sangue è più denso dell’acqua, i fratelli sono sempre legati dalla carne, anche se le ossa sono fratturate», ha detto Xi. Subito, il leader di Pechino ha spiegato che le relazioni, dopo 66 anni, sono a un bivio: «Oggi siamo seduti insieme per evitare che si ripetano le tragedie della storia». Con l’isola a portata di missili dalle coste cinesi, l’osservazione è risuonata come un monito, anche se pronunciata tra i sorrisi.
Il presidente taiwanese ha risposto citando il «Consenso del 1992», con il quale Pechino e Taipei hanno riconosciuto il principio di «una sola Cina». Però «entrambe le parti devono rispettare i valori e il modo di vivere dell’altro». Ma Ying-jeou ha rivendicato che sotto la sua presidenza, iniziata nel 2008 e ora al termine, le due parti hanno siglato 23 accordi, si sono scambiate 40 mila studenti, 8 milioni di turisti all’anno, si mandano merci per 170 miliardi di dollari l’anno. Perché cambiare? Per Ma, l’obiettivo è di mantenere lo status quo in modo pacifico, per questo ieri ha proposto di allacciare una linea rossa di comunicazioni anti-emergenze attraverso lo Stretto.
Il problema è che lo status quo, la separazione di fatto, non va bene alla Cina. Xi in passato ha affermato che la questione taiwanese non può essere più passata di generazione in generazione; l’anno scorso ha detto chiaramente che il rientro dell’isola sotto il controllo di Pechino «è inevitabile», meglio se pacificamente. L’unica concessione è che la formula può essere quella «Un Paese due Sistemi», come per Hong Kong e Macao. Xi sta agendo con audacia, prendendo dei rischi. Anzitutto quello di legittimare la controparte, perché è vero che ha chiamato «signore» e non «presidente» il leader taiwanese; ma ha anche accettato di farsi degradare a semplice «signore» e non Presidente della Repubblica popolare. E poi, Ma è quasi un’anatra morta più che zoppa: a gennaio uscirà di scena e anche il suo partito Kuomintang, secondo i sondaggi, sarà sconfitto dall’opposizione del Dpp, guidata dalla signora Tsai Ing-wen, che ha ambizioni indipendentiste. A Taipei ci sono state proteste per il vertice, accuse ai cinesi di voler aiutare il Kuomintang. Se il Kuomintang sarà sconfitto, se Tsai sarà presidentessa, Xi potrebbe essere accusato dai compagni del Politburo di aver sbagliato cavallo.
Per il professore americano Allen Carlson, della Cornell University, abbiamo assistito a «un passo analogo a quello compiuto da Nixon quando andò a Pechino nel 1972, o da Obama che ha aperto le relazioni con Cuba. Detto questo, affermata la storicità dell’evento, bisogna vedere quali saranno le conseguenze».
Insomma, una coraggiosa e sorprendente mossa di Xi Jinping. E una battaglia diplomatica di retroguardia da parte di Ma, leader di un’isola di 23 milioni di abitanti che rappresenta un’idea di Cina democratica e sola: ormai la riconoscono come Stato solo 22 Paesi nel mondo.