Corriere 29.11.15
Lo scrittore Javier Cercas
Nella notte di Parigi è rinata l’Europa
intervista di Aldo Cazzullo
BARCELLONA Dice Javier Cercas — il più importante scrittore civile spagnolo, milioni di copie vendute in tutto il mondo con Soldati di Salamina , Anatomia di un istante , L’impostore — che «le stragi di Parigi hanno avuto, nell’orrore, una conseguenza positiva. Una sola, ma preziosissima».
Quale, Cercas?
«È nato l’embrione dell’Europa. Nessuno di noi ha pensato che fosse un attacco alla Francia; tutti abbiamo capito che era un attacco all’Europa. E i più coinvolti erano i giovani, i ventenni come mio figlio Raul e la sua fidanzata: la prima generazione di europei».
Sta dicendo che l’Europa non poteva nascere dai trattati e dai vertici, ma dal lutto e dal dolore, come nel 1945?
«Il primo a dirlo è stato Alberto Savinio. Nella “Sorte dell’Europa”, scritto all’indomani della Liberazione, intuì che il disastro della guerra aveva reso possibile il sogno di un continente pacificato e unito. Ci voleva ora quest’altra guerra per realizzare che l’Europa unita è il nostro solo orizzonte. D’un tratto, quello che appariva freddo e tecnocratico è diventato carne e sangue. Divisi, i nostri vecchi Stati non contano nulla. Insieme, siamo la prima potenza mondiale».
Addirittura?
«Sì. L’Europa può essere più forte degli Stati Uniti, se sarà unita politicamente mantenendo la sua diversità culturale. L’Europa è come il romanzo».
Cosa intende dire?
«Il romanzo mangia tutto e digerisce tutto. Si nutre di storia con Balzac, di poesia con Flaubert, di giornalismo con Dumas, di pamphlet con Zola. L’Europa si nutre di cultura tedesca, francese, italiana, e ne fa una cultura nuova. È una ricchezza che l’America non potrà mai avere».
Cosa pensa di Houellebecq?
«Ho amato molto Estensione del dominio della lotta , meno Le particelle elementari . Ora leggerò Sottomissione , mi pare uno spunto interessante…».
Non mi riferivo al valore letterario.
«Va bene, le risponderò. Esiste, in Francia e non solo, una corrente di pensiero che dietro all’allarme islamico maschera una reazione nazionalista. È gente che ha paura. Sulla difensiva. Il problema non sono i musulmani; il problema per loro è l’Europa. Si aggrappano alla sovranità perché temono di perdere il Volksgeist, lo spirito del popolo. Ma lo spirito del popolo francese non esiste».
La Francia è uno Stato da sei secoli.
«Anche la Spagna, se è per questo. Ma non esiste uno spirito del popolo spagnolo, eterno e immutabile. È un’invenzione. Esistono una lingua, una cultura, una letteratura, che cambiano, si contaminano, si arricchiscono. Voi italiani non avete idea di quanto siete stati importanti per noi spagnoli: al tempo della transizione alla democrazia, noi ragazzi guardavamo i film di Fellini e Visconti, leggevamo Calvino e Sciascia, studiavamo Manganelli e Magris. Poi abbiamo scoperto Del Giudice e De Carlo; anche se da un po’ ne abbiamo perso le tracce».
Lei parla di guerra. In Italia Renzi preferisce non usare quella parola.
«In termini linguistici, sbaglia. Ma ha ragione a usare prudenza».
È giusto chiamarla guerra?
«Certo. Il primo a farlo è stato il Papa. Ora ce ne siamo accorti tutti, o quasi, perché siamo stati attaccati. Il problema è come combatterla, questa guerra».
Con una coalizione che abbatta lo Stato Islamico. C’è un altro modo?
«Io non sono pacifista. Tanto meno buonista. Ma sono contro un intervento in Siria, fino a quando non mi si dimostra che i benefici sono maggiori dei danni. E gli interventi in Iraq e in Libia hanno creato più danni che benefici. Purtroppo avevano ragione i tiranni, quando ci dicevano che l’alternativa alla loro tirannia era il fondamentalismo islamico. Al Qaeda era peggio di Saddam. L’Isis è peggio di Al Qaeda. Quello che verrà dopo potrebbe essere peggio dell’Isis».
Ma come possiamo tollerare uno Stato Islamico che va dalle porte di Bagdad a quelle di Damasco e proclama di volerci distruggere?
«Non parlerei di uno Stato. Certo si tratta di assassini da eliminare. Ma per distruggerli dobbiamo prima capirli. Conoscerli. Come fece Nelson Mandela con i suoi nemici».
Che c’entra Mandela?
«Nei ventisette anni che passò nelle carceri dell’apartheid, Mandela capì che per sconfiggere l’avversario doveva studiarlo. Si fece portare libri in afrikaaner, per impararne la lingua, le paure, il modo di pensare. Noi dell’Islam non sappiamo nulla. Molti tra coloro che hanno deciso l’invasione dell’Iraq pensavano in buona fede di esportare la democrazia. Hanno avuto il sostegno di alcune tra le migliori intelligenze dell’Occidente, da Hitchens a Vargas Llosa. Si sbagliavano. Ancora oggi siamo troppo ignoranti».
Noi studiamo, loro ammazzano.
«Ma il manicheismo secondo cui noi siamo il bene e loro sono il male è uno schema falso».
Non dirà anche lei che è tutta colpa dell’Occidente?
«Non dico questo. Non pratico l’autofustigazione. E non la penso come Niall Ferguson, che paragona il nostro momento storico al crollo dell’impero romano. Al contrario, questo è il momento di costruire l’Europa: una politica comune di difesa, una politica comune dell’immigrazione. Ma in Libia e in Medio Oriente noi abbiamo gravi responsabilità. Le bombe seminano non solo morte, ma anche odio, risentimento, volontà di vendetta. Cominciamo semmai a tagliare le vie per cui passano i finanziamenti e le armi».
Ha ragione il Papa, quando collega terrorismo e povertà?
«La povertà non è certo l’unica causa. Mohamed Atta, la mente dell’11 settembre, aveva un curriculum universitario. Non tutti i carnefici di Parigi vengono dalle banlieues. Ma nelle nostre periferie cresce una generazione senza speranza, esclusa da tutto: come il “perdente radicale” di Enzensberger. I jihadisti promettono di dare un senso a vite che non ne hanno».
Quindi i terroristi non sono isolati?
«Tutt’altro. Hanno milioni di simpatizzanti, come si è visto allo stadio di Istanbul. Lei pensa che i turchi siano disposti a combattere l’Isis? E perché dovrebbero farlo i sauditi, che lo finanziano, che applicano la sua stessa legge, la sharia? Questo rende ancora più necessario integrare i figli dell’immigrazione, i nuovi europei: un’integrazione rispettosa, che farà crescere anche noi. Dobbiamo chiudere le moschee dove si predica la jihad, ma dobbiamo anche dare una chance ai profughi. Con la sua apertura, la Merkel ha dimostrato di essere davvero la leader della nuova Europa».
E qui in Spagna? Chi vince le elezioni del 20 dicembre?
«Rajoy. Grigio, modesto, del tutto privo di carisma. Ma con la guerra viene il “richiamo all’ordine”. Finirà come a Londra: nei sondaggi Farage era sopra il 20%, poi ha vinto Cameron. In Spagna la destra farà un governo con Ciudadanos, il movimento di Albert Rivera. E l’indipendenza catalana non ci sarà; per fortuna. Dobbiamo dissolvere i vecchi Stati in una federazione europea, non crearne di nuovi. Solo così il potere politico potrà resistere al potere economico, la democrazia potrà fronteggiare le corporation globali».
Crede che vedremo la fine di questa guerra?
«No, credo di no. Questa è una guerra anomala. Però ogni guerra a suo modo lo è. Consideri la guerra civile spagnola: non è durata tre anni, ma trentanove. Il franchismo non ha segnato la pace bensì la sopraffazione di una parte sull’altra. Noi possiamo sconfiggere l’Isis, e ci troveremo a combattere con altri islamici. Israele distruggerà tutti i tunnel di Hamas, e Hamas ne scaverà altri; fino a quando non ci sarà una soluzione politica alla questione mediorientale, focolaio di divisioni. Ma forse neppure Mandela pensava di vedere la fine della sua guerra. Invece ha fatto in tempo a vincerla».