lunedì 23 novembre 2015

Corriere 23.11.15
Perché la pace a Parigi passa dalla guerra
Questa guerra contro l’Isis non si vince nelle strade di Parigi, ma nelle pianure irachene e siriane dove il nemico è visibile e vulnerabile
di Bernard-Henri Lévy

«Siamo in guerra», ha dichiarato François Hollande davanti al Congresso riunito a Versailles. «Siamo in guerra», ha ribadito Manuel Valls, il suo primo ministro, in tutti i modi possibili. Ma attenzione! Siamo, l’hanno detto molto chiaramente, in una guerra doppia. Contro un unico nemico, ma una guerra che si divide in due.
C’è il fronte interno, che passa attraverso i tavolini all’aperto, gli stadi di calcio o le sale da concerto parigine, così come attraverso i covi di Saint-Denis o Molenbeek, in Belgio, dove si rintanano i combattenti infiltrati. Ma c’è anche il fronte esterno, che è quello principale e che passa per Raqqa, Mosul e le altre città irachene e siriane dove questi barbari trovano le loro armi, vanno a cercare le loro mappe e imparano nei campi di addestramento che abbiamo lasciato prosperare, l’arte di questa nuova e atroce guerra contro i civili. Dire che è questo secondo fronte a essere decisivo non significa che basterà spazzare via lo Stato Islamico per vedere sparire per incanto tutte le cellule più o meno dormienti che sono già all’opera, pronte a colpire, nelle grandi città di Francia e d’Europa. Ma questo vuol dire senza dubbio che, essendo laggiù il cuore, le risorse, i centri di comando, priveremmo queste cellule, colpendole alla testa, di una buona parte della loro potenza: come combattere gli effetti senza andare alle cause? Forse le succursali non dipendono dalla casa madre? Si può forse guarire un cancro prendendo a bersaglio solo le metastasi e lasciando proliferare il tumore principale? Come non vedere, in una frase, che la pace a Parigi passa per la guerra a Mosul? O, più esattamente, che questa guerra contro l’Isis non può essere vinta nelle strade di Parigi martirizzate da un nemico invisibile, imprevedibile, pronto a ricominciare, ma nelle pianure irachene e siriane, dove è allo stesso tempo visibile, facile da individuare e vulnerabile?
A questo ragionamento di buon senso si oppongono oggi tre forze di diversa intensità. L’atteggiamento alla Monaco 1938, per cominciare, di quanti invertendo l’ordine dei fattori ripetono ovunque che è perché noi ce la prendiamo con gli islamisti che gli islamisti se la prendono con noi: argomento stupido e infetto che era, fatte le debite proporzioni, quello dei pacifisti degli anni Trenta e che vede la riflessione allineata sulla retorica stessa degli assassini e dei loro comunicati infami.
Il vecchio argomento, poi, che ci veniva propinato già vent’anni fa, a proposito dell’esercito serbo, reputato il terzo del mondo e che, in questo caso, consiste nello spaventare le popolazioni con il ritornello dell’armata super-potente e invincibile che ha smembrato l’Iraq e la Siria e che ci starebbe attirando in un nuovo e inevitabile pantano: se davvero così fosse, come mai i curdi, che sono per adesso gli unici a opporsi allo Stato Islamico, vincono a mani basse tutte le battaglie che intraprendono? Come spiegare che a Kirkuk e, più recentemente, nel Sinjar, i tagliatori di teste abbiano tagliato la corda quasi senza combattere di fronte alla determinazione e al coraggio dei peshmerga pur armati in modo davvero insufficiente? E dove sono, del resto, queste famose «scorte di carri armati e di artiglieria» dei quali i fanatici di Dio si sono impadroniti in occasione della disfatta dell’esercito iracheno e che sono giudicati in grado di rendere altamente a rischio ogni forma di intervento un po’ più impegnativo dei soli raid aerei? Perché queste scorte di armi non le abbiamo viste all’opera né a Kobane né, la settimana scorsa, nella battaglia che ha liberato la capitale degli yazidi? Perché queste armi non hanno mai bombardato a tappeto i fortini dei peshmerga curdi e perché l’Isis, al posto di questa dotazione favolosa, usa sempre gli stessi camion-kamikaze? La verità è che questi arsenali sono stati distrutti, ridotti al silenzio o paralizzati dall’aviazione degli alleati e che l’Isis oggi non è altro che una tigre di carta. E poi c’è, in terzo luogo, la reticenza di un Barack Obama sempre più visibilmente tormentato da quello che saremmo tentati di chiamare la sindrome di Oslo: questo famoso premio Nobel per la pace attribuitogli nei primi mesi del suo mandato e che fa sì che il presidente della prima potenza mondiale, l’uomo senza il quale niente sarà possibile e la cui determinazione è importante almeno tanto quanto quella del presidente Hollande, sembra domandarsi ogni mattina, quando si fa la barba, come dovrebbe agire un vero premio Nobel per la pace… Il presidente degli Stati Uniti capirà alla fine che, di fronte a un nemico che ha dichiarato guerra alla civiltà, il tempo del narcisismo moralizzatore è passato? Capirà quanto disastroso sarebbe lasciare come eredità uno Stato nazista al quale si sarebbe permesso di radicarsi nel territorio di sua scelta, quando invece saremmo ancora in tempo, se lo decidessimo, per spazzarlo via?
Ascolterà Obama il grido di soccorso che lancia, al suo alleato di sempre, una Francia nel lutto e sentirà che il suo Paese ha, come nel 1917, come nel 1944, per la terza volta appuntamento con l’Europa? E che fine ha fatto il giovane Barack Obama che ho incontrato, nel 2003, a Boston e che mi ha superbamente spiegato, all’epoca, che cosa distingueva l’assurda guerra d’Iraq da una guerra politicamente giusta, moralmente giustificata e il cui principio sarebbe, non di aggiungere il male al male, ma al contrario di arginarlo? Non esistono, oggi, domande più fondamentali né più angoscianti