domenica 22 novembre 2015

Corriere 22.11.15
L’islam e le sue fedi Una guerra di religione
risponde Sergio Romano


Credo che i conflitti tra fedeli sciiti e sunniti, così come quelli tra cattolici e protestanti durante la guerra dei Trent'anni, siano lo strumento con il quale Iran e Arabia Saudita si contendono le rispettive aree di influenza, nel modo delle potenze europee prima del compromesso raggiunto con la pace di Vestfalia. Ad aggravare la rivalità è il coinvolgimento delle potenze straniere, Cina esclusa, in conflitti regionali che, se non potevano lasciarci spettatori indifferenti ai tempi della dipendenza energetica, ora richiederebbero un approccio neutrale. Ora che siamo riusciti nell’intento di reintrodurre l’Iran nelle normali relazioni internazionali e nell’auspicio di replicare presto il medesimo risultato con la Russia post crisi Ucraina per recuperarne le ingenti forniture energetiche a renderci pressoché autosufficienti, non ritiene sia giunto il momento di concentrare i nostri sforzi per accomodare le trattative diplomatiche tra iraniani e sauditi perché raggiungano un equilibrio delle rispettive potenze, invece di continuare a intervenire militarmente impedendo loro di conseguire una stabilità? Perché non promuovere un dialogo per favorire una gestione congiunta dei luoghi di culto della Mecca e di Medina che l’Arabia Saudita amministra unilateralmente così fornendo argomenti alle legittime rivendicazioni sciite prontamente usate a fini geopolitici dalla reggenza teocratica iraniana?
Roberto Papa

Caro Papa,
Il conflitto fra Stati cattolici e protestanti durò trent’anni e si concluse con un patto che riconosceva e consolidava lo status quo. La religione di uno Stato, dalla firma del trattato in poi, sarebbe stata quella del suo sovrano, indipendentemente dal numero dei fedeli delle due grande famiglie religiose create dalla riforma di Lutero. Si trattò di un compromesso laico che riconosceva allo Stato, per molti aspetti, un’autorità superiore a quella delle Chiese. La soluzione adottata dal mondo musulmano non è poi così diversa. Anche nell’Islam la religione dominante è quella del gruppo dirigente, persino quando è statisticamente minoritario. Fra i casi più clamorosi vi è quello del Bahrein, un piccolo Stato del Golfo (poco più di un milione e 200.000 abitanti) in cui il re è sunnita, ma la percentuale degli sciiti si aggira fra il 65 e il 75% della popolazione. Nell’Iraq di Saddam Hussein, prima dell’invasione americana, buona parte del potere era nelle mani delle tribù sunnite, ma la maggiorana della popolazione era sciita. Nella Siria della famiglia Assad, uno dei regimi più laici e religiosamente tolleranti della regione, il gruppo dirigente, prima delle rivolte, era alauita (una variante della grande famiglia sciita), ma la maggioranza è sunnita.
Come è stato spiegato in altre occasioni, le ragioni della reciproca ostilità sono più dinastiche che religiose (un antica lite sulla discendenza del profeta), ma sono accese e inasprite dal modo in cui il potere, in società tribali e clientelari, distribuisce favori, incarichi, privilegi. La vera soluzione del problema, quindi, passa attraverso la trasformazione di società fortemente clientelari in Stati di diritto dove tutti abbiano gli stessi diritti e doveri.
Esistono anche formule costituzionali, come quella adottata in Libano sin dalla fine del mandato francese. In un Paese in cui vi sono almeno tre grandi famiglie religiose, la costituzione prevede che il presidente della Repubblica sia cristiano maronita, il presidente del Consiglio sunnita e il presidente del Parlamento sciita. Sappiamo che gli sciiti hanno una organizzazione armata (Hezbollah) e che si comportano spesso come uno Stato nello Stato. Venticinque anni di pace interna dopo la fine della guerra civile, nel 1991, sembrano dimostrare che la convivenza è possibile . Ma il recente attentato nel quartiere sciita di Beirut dimostra che l’Isis non rinuncia alla speranza di riattizzare il conflitto.