Corriere 21.11.15
Costituzione e guerra
Parliamone senza tabù. Nel conflitto ci siamo già
di Michele Ainis
È guerra? E contro chi? L’Isis? Che razza di Stato è? Tante domande, ma non c’è niente da fare: in Italia questa parola rimane un tabù. Ed è un male, perché ciò impedisce ogni dibattito pubblico sull’opportunità stessa della guerra. E perché comunque siamo già immersi in un conflitto, ci siamo già dentro mani e piedi.
È guerra? Il dubbio che ci buca i timpani dopo i fatti di Parigi gira attorno a una parola, alle sue sonorità funeste, ai suoi significati. E se anche fosse, contro chi la combattiamo? Le guerre s’ingaggiano fra Stati, non fra gli individui, non fra guardie e ladri. Ma è uno Stato Isis, o Daesh, o come diavolo si chiama? Sono soldati stranieri i terroristi del 13 novembre? Qualche straccio di risposta bisognerà trovarla. Perché c’è un diritto per il tempo di pace, c’è un diritto per il tempo di guerra. Dall’una o dall’altra condizione discendono regole diverse, che poi s’incidono sulla nostra pelle come un marchio a fuoco.
Scontro tra eserciti
Sì, è una guerra, ha subito dichiarato Hollande. E con lui molti intellettuali, dall’americano Michael Walzer all’inglese John Lloyd. Nessuna guerra, obietta Renzi, insieme ad altri capi di governo dell’Europa. Chi ha ragione? Se per guerra s’intende uno scontro fra eserciti in divisa, che si sparano addosso lungo la linea del fronte, allora Renzi ha tutte le ragioni. Se invece si misurano gli effetti delle guerre nei confronti della popolazione civile, il dubbio sbuca fuori come un tarlo. Puoi contare cento morti in uno stadio a causa della bomba sganciata da un aereo, oppure perché un kamikaze si fa saltare in aria con la sua cintura esplosiva: c’è davvero differenza? E c’è differenza fra le notti blindate delle città europee al tempo dei nazisti, rispetto alle paure che ci mordono alla gola in questi giorni, agli allarmi sulla metropolitana, alle camionette dell’esercito che presidiano le piazze?
La definizione di Stato
Quella volta però il nemico era uno Stato sovrano, con la croce uncinata sui propri gonfaloni. Stavolta è un’organizzazione terroristica, secondo la definizione che ne ha offerto l’Onu (risoluzione 2170 del 2014). Anche il presidente Obama ha usato parole perentorie: «The Islamic State is neither Islamic nor a State», disse nel suo discorso alla nazione del 10 settembre 2014. Insomma, il sedicente Stato islamico non è islamico e non è neppure uno Stato. Sicuro? In uno studio di Mario Fiorillo, in corso di pubblicazione per la rivista giuridica Lo Stato , s’affaccia un’altra verità. Giacché i tre elementi che identificano la sovranità statale — un territorio, un popolo, un governo — parrebbero applicarsi pure al Califfato. Difatti quest’ultimo s’estende dalla Siria all’Iraq. Controlla sei milioni d’abitanti. Rilascia passaporti, eroga servizi sociali, esige il pagamento dei tributi, somministra la giustizia con i tribunali islamici, garantisce l’ordine pubblico attraverso la Hisba, una polizia religiosa. E ha infine una Costituzione: il Corano.
Ecco, la Costituzione. Hollande vuole cambiarla, vuole adattarla a questa nuova guerra. Eppure in Francia hanno norme dettagliate, che spaziano dallo stato d’eccezione (art. 16) allo stato d’assedio (art. 36). Il primo attribuisce i pieni poteri al presidente, e fu usato una sola volta da De Gaulle: nel 1961, dopo il putsch dei generali. Il secondo regola la «guerra interna» (per esempio una sommossa armata), trasferendo competenze ai militari. Ma entrambi restano soggetti a precisi limiti di tempo (60 o 12 giorni). Sicché adesso i francesi pensano d’iscrivere nella Costituzione un terzo tipo: lo stato d’emergenza, una sorta di semiguerra prolungata. D’altronde loro in queste faccende appaiono, come dire?, un po’ inconstantes; non per nulla sono già alla Quinta Repubblica e alla settima Costituzione repubblicana, peraltro emendata in profondità nel 2008. Tutto l’opposto degli americani, che mantengono la stessa Carta da 230 anni. In quel testo si parla ancora degli indiani, ma nessuno s’azzarda mai a correggerne una virgola, preferendo stimolarne letture evolutive.
Noi e gli altri
E noi, come dobbiamo regolarci? Quanto suonano obsolete le nostre vecchie norme? Per esempio l’art. 87, secondo il quale è Mattarella che «dichiara lo stato di guerra». Ma le guerre ormai non si dichiarano, si fanno. Perfino i giapponesi, che prendono sul serio qualsiasi cerimonia, nel 1941 incaricarono il loro ambasciatore a Washington di consegnare la dichiarazione di guerra solo mezz’ora prima dell’attacco di Pearl Harbor, per non guastare la sorpresa. Insomma, qualche domanda faremmo bene a sollevarla pure noi italiani. Anche perché alle nostre latitudini le norme costituzionali sulla guerra non si cambiano come in Francia, non s’interpretano come negli Usa. Più semplicemente s’ignorano, magari travestendo i bombardamenti in Kossovo (nel 1999) da «ingerenze umanitarie». Oscurando così l’art. 11, che ammette la sola guerra difensiva. E disapplicando l’art. 78, che reclama una delibera formale da parte delle Camere, nonché un atto di delega al governo per l’esercizio di poteri straordinari.
Regole e realtà
Niente da fare, in Italia questa parola rimane un tabù. Ed è un male, perché ciò impedisce ogni dibattito pubblico sull’opportunità stessa della guerra. E perché comunque siamo già immersi in un conflitto, ci siamo già dentro mani e piedi. Possiamo esorcizzarlo definendolo una pre-guerra contro un proto-Stato. Ma nel frattempo le nostre libertà — dalla privacy alla libertà di movimento — s’assottigliano, vengono sequestrate una per una. Chissà, magari questa nuova condizione ci aiuterà a riscoprirne il valore; fin qui le davamo per scontate, come una vecchia moglie che ciabatta dentro casa, e non t’immagini che un giorno possa fare le valigie. O magari scopriremo d’essere un popolo, unito dal medesimo destino.