Corriere 21.11.15
I terroristi e l’odio. Quegli occhi senza sguardo
di Emanuele Trevi
I kamikaze dei ghetti di Bruxelles e Parigi ci ricordano che la miseria umana muta continuamente, come un virus. Le tracce digitali, selfie e messaggi, li mostrano indistinguibili da tutti gli altri. Poi una specie di salto, e il ragazzo che cantava il rap ci guarda truce brandendo un mitra, lo sguardo di una fissità maniacale.
Urgono narrazioni aggiornate, che ci permettano di capire chi sono questi mostri della porta accanto, i nuovi protagonisti dell’incendio terroristico che continua a divampare senza che nessuno sappia davvero come domarlo. Dalla matassa enorme e aggrovigliata delle informazioni, bisogna tirare fuori il bandolo di un racconto dotato di senso. Non è, questo, un problema astratto e secondario, circoscritto all’attività dei romanzieri e degli sceneggiatori di serie televisive. In ogni conflitto, in ogni emergenza si agitano delle identità, e la capacità di ricostruirne credibilmente il profilo va annoverata a buon diritto tra le più urgenti misure di sicurezza. In questo senso, la vita reale funziona in modo molto simile ai romanzi o alle fiction televisive: il pericolo aumenta in maniera esponenziale quando si affacciano sulla scena personaggi dotati di caratteristiche e psicologia del tutto diverse da quelle che ci eravamo abituati a pensare. Si tratta, allora, di un esercizio intellettuale necessario, e molto doloroso. I kamikaze dei ghetti di Bruxelles e Parigi ci ricordano infatti, prima di ogni altra cosa, che la miseria umana muta e si rafforza continuamente, alla maniera dei virus più nocivi.
Come tutti i loro contemporanei, questi disgraziati si lasciano dietro un mare di tracce digitali: selfie e messaggi che fino a un certo punto della loro storia li mostrano indistinguibili da tutti gli altri, nell’infinita serie di variabili che rientrano comunque in un concetto approssimativo di «normalità». Poi avviene una specie di salto invisibile, come una morte apparente che genera una nuova vita irriconoscibile, e il ragazzo che cantava il rap ci guarda truce e demente, brandendo un mitra, lo sguardo ridotto a una fissità maniacale, come se un congegno fantascientifico fosse riuscito a espellere da lui ogni forma di coscienza e di empatia. Cos’è accaduto? Nessun selfie potrà mai catturare il momento della metamorfosi. È proprio su questa casella vuota e oscura che bisogna esercitare l’intelligenza. Le serie di foto che guardiamo sui siti di giornali ci fanno vedere solo il prima e il dopo.
Tra queste gallerie di immagini, nessuna è più impressionante di quella che riguarda Hasna Ait Boulahcen, morta assieme ad altri due terroristi nel covo di Saint-Denis. Eccola qui, nella vasca da bagno, coperta solo da invitante velo di schiuma. O ancora con uno di quei cappelli americani che amava così tanto da guadagnarsi il soprannome di «cowboy». Ha alle spalle un passato difficile, come ci hanno raccontato, ma non ha certo l’aspetto di chi si è arreso al suo passato. È un essere umano, piuttosto, che vive la sua vita, che per tutti gli esseri umani è più o meno difficile. Dopo il salto, non c’è più nulla. È un vestito pronto ad esplodere, dotato di una fessura per gli occhi. Ma sono occhi, se è mai possibile immaginare una simile mostruosità, che pur non essendo accecati, hanno perso lo sguardo. Hanno perso, cioè, ogni forma di emozione generata dalla relazione con l’altro. Se per ipotesi questa donna fosse rimasta sola al mondo, l’unica sopravvissuta a un disastro planetario, quegli occhi continuerebbero a odiare il nulla che li circonda.
Si dirà che tanta gente cambia, in meglio o in peggio, finendo per incarnare addirittura il proprio contrario. E così considerate in astratto, le fotografie di Hasna non sono poi così interessanti. Ma i cambiamenti, per loro natura, sono dei processi che avvengono nel tempo. Possiamo esserne inorriditi, ma ci permettono delle ipotesi. Prendiamo un mostro di vecchio stampo come Osama bin Laden. La sua biografia consiste di periodi abbastanza riconoscibili, tanto che riusciamo a raccontarla: il rampollo di una potentissima famiglia, il guerrigliero che fa la sua jihad contro i russi in Afghanistan, e così via. Nella vita maledetta di Hasna e dei suoi amici, al contrario, non c’è nulla che assomigli al tempo che passa, con la sua innumerevole serie di gradazioni, cambi di rotta, possibilità di ritornare sui propri passi. La trasformazione è così repentina che non consente di appigliarsi al fondamento stesso della logica, che è la relazione tra cause ed effetti.
Proprio non riusciamo a capire. Questa ragazza ha dedicato molto più tempo a scegliere i suoi cappelli da cowboy che a decidere di far parte di un gruppo di terroristi. In tutto questo, mi sembra ovvio, il Corano non ha avuto nessun ruolo. Potrà essere ancora importante per gli ideologi del Califfato, e per le bande di fanatici che agiscono lontani dall’Europa. Ma per i nuovi kamikaze fai-da-te, molto più simili ai ragazzi americani che fanno strage dei loro compagni nelle scuole che ai vecchi terroristi dell’11 settembre, la religione è solo un minimo, quasi impercettibile involucro di significati che non conta di più della bandiera di una squadra di calcio o del tatuaggio di una gang di spacciatori. C’è da scommetterci: alla fine, sfuggiranno di mano ai loro stessi mandanti e reclutatori. Se c’è qualcosa a cui sono fedeli, è una pulsione di morte che, a differenza di quanto accade in tutti i loro simili, non è più ostacolata da nessun contrappeso interiore. Ed è per questo che si arruolano tra loro con la stessa facilità e rapidità con cui i nazisti ingrossavano ogni giorno le loro file: la pulsione di morte è un contagio, non ha bisogno di nessun proselitismo tradizionale, non ha bisogno di parlare né all’intelligenza né alle emozioni, si impadronisce dell’identità come un malvagio incantesimo.
Irresponsabili politiche sociali ed urbanistiche hanno creato alle porte di città come Parigi e Bruxelles il contesto ideale per questa catastrofe. Li chiamiamo ancora ghetti, quasi tradendo una giustificabile nostalgia per le tradizionali, cicliche rivolte di piazza. In realtà, somigliano sinistramente ai laboratori degli scienziati pazzi di certi vecchi film: sono le culle dell’inconcepibile, l’incubatrice di un rischio mortale dal quale nessuno di noi può pensarsi al riparo.