sabato 14 novembre 2015

Corriere 14.11.15
Segreteria e congresso
La scossa del leader per rinnovare il partito
di Francesco Verderami


Roma Renzi nel 2016 vuole fare le elezioni anticipate. Ma non nel Paese, nel partito. Convocazione del congresso e primarie si terrebbero prima della scadenza naturale, subito dopo il referendum costituzionale, che confida di vincere. Il fatto è che nello storytelling di Renzi il Pd è un capitolo zeppo di sgrammaticature e di errori di ortografia. E se questa parte va riscritta è perché il premier-segretario si è concentrato solo sull’azione di governo, incurante delle critiche, di quanti gli imputavano da tempo di aver «ridotto il partito a un comitato elettorale», di aver trasformato la direzione in un votificio dove «ti danno tre minuti per parlare, tanto poi decide la maggioranza, cioè lui».
Però finora il racconto sembrava scorrere, grazie alla trama su Palazzo Chigi. L’anno scorso — appena diventato presidente del Consiglio — Renzi aveva dato 80 euro in Finanziaria e aveva ricevuto il 40% alle Europee. E anche quest’anno confidava in un’altra plusvalenza politica, per aver messo a bilancio la riforma elettorale e la ripartenza del Pil. Se la storia si è inceppata è per le pagine sul partito, dove in periferia a volte è dovuto ricorrere — così dice — a «mediazioni al ribasso», e altre volte ha dovuto subire le scelte di reduci e riservisti.
È il segno di un’assenza nella gestione degli affari interni del Pd, che pure gli compete, è lo spettacolo sul territorio segnato dall’eterna crisi siciliana, dall’incompiuta pugliese, dalla sconfitta ligure, dalla «non vittoria» campana. Per glissare su Roma. Tutto questo finisce per negare o quanto meno annegare il messaggio renziano, l’immagine improntata all’ottimismo, all’efficienza, ai risultati. E invece, nei giorni in cui veniva approvata la riforma costituzionale al Senato, Renzi ha visto i tg impegnati a inquadrare Marino asserragliato in Campidoglio. E ora, piuttosto che ricevere domande sulla legge di Stabilità e sul taglio delle tasse, deve rispondere sullo scandalo che lambisce il governatore De Luca.
Il leader sa e infatti dice «così non funziona», che è come ammettere uno strafalcione da matita rossa e blu. Perciò metterà subito mano al Pd, per far capire di averci messo la testa, per rispondere agli avversari interni ed esterni, alle operazioni di chi è andato fuori accusandolo di «guida cesarista», e di chi è rimasto dentro criticandolo di non aver riformato il partito, e chiedendo la separazione delle carriere: «Chi fa il premier non può fare allo stesso tempo il segretario». È la tesi di D’Alema, è il precetto che Bersani avrebbe applicato a se stesso se fosse andato a Palazzo Chigi. È una storia di cui Renzi non vuol sentire parlare.
Piuttosto, prima delle feste di Natale, «darò un segnale forte», interverrà cioè sulla segreteria innestandola con forze nuove che riflettano «autorevolezza». In ogni caso «dovrò occuparmi di più del partito», che è una creatura complicata, perché sul territorio i problemi al nord e al sud non sono uguali e vanno affrontati in modo diverso. Se ha deciso di muoversi è per non fare alle Amministrative gli stessi errori delle Regionali, sebbene la crisi di Roma e il caso in Campania prospettino nella Capitale e a Napoli una sconfitta nelle urne, che solo la conquista di Milano e Torino mitigherebbe.
Perciò il nodo di volta resta sempre il referendum costituzionale che per il premier-segretario rappresenta tutto. Il capo democrat è convinto della vittoria, e — se avrà avuto ragione — sull’onda del successo chiamerà il partito a esprimersi sulla sua guida, come fosse un altro referendum. L’avvio della fase congressuale e il voto delle primarie verrebbero anticipati a cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, prima cioè delle scadenze prestabilite. Così Renzi pensa di regolare i conti con quanti — da Rossi a Emiliano — si preparano a contendergli la leadership, e immagina di normalizzare ciò che resta della minoranza interna.
Ma la storia è ancora da scrivere, se è vero che nel Pd tendenza Renzi iniziano ad affiorare preoccupazioni sull’esito del referendum costituzionale. Il timore è che al blocco delle forze di opposizione — stimato attorno al 45% — possa saldarsi un pezzo di voto d’opinione, che una parte del Paese — delusa e influenzata da vari fattori, non ultimi gli scandali — possa voltare le spalle al premier e cambiare l’esito del risultato. Che finale da thrilling.