mercoledì 11 novembre 2015

Corriere 11.11.15
L’assenza vitale
Platone, Galileo o Andersen. Così il peso dell’ombra disegna l’irrequietezza dell’esistenza
di Giulio Giorello


«Che succede?» constatò un giorno, sorpreso, un serio e sfortunato studioso. «Non ho l’ombra! Allora ieri sera se ne è andata veramente, e non è tornata». Ma la fuggitiva farà la sua ricomparsa, e persuaderà il suo antico possessore, finito in pessime condizioni economiche, a seguirla proprio come lei faceva quando era legata ai suoi piedi. L’ombra «sarà dunque il padrone, e il padrone, l’ombra» finché quest’ultima non si sbarazzerà dell’ormai fastidioso ex proprietario.
È una melanconica storiella (1847) di Hans Christian Andersen; ma lo scambio dei ruoli tra padrone e servo è degno di Hegel, nella Fenomenologia (1807). E quello stesso filosofo osserva nella Scienza della logica (1812) che «la pura luce e la pura oscurità sono due vuoti» e, che perché qualcosa emerga, la luce deve intorbidarsi e l’oscurità rischiararsi.
Dunque, la storia dell’Ombra (come suona il titolo della fiaba di Andersen) «non è la storia del nulla», commenta Victor Stoichita nella sua Breve storia dell’ombra (il Saggiatore Milano 2000 e 2015 ). In breve, l’ombra è la mediazione che conduce alla determinatezza.
Non c’è da stupirsi che essa sia all’origine delle arti figurative, dato che un’antica leggenda al proposito veniva ancora ripresa nell’Enciclopedia dell’Età dei Lumi: «Una pastorella allo scopo di conservare il ritratto del proprio amante tracciò per prima una linea attorno all’ombra che il viso del giovane uomo faceva sul muro». Notava Giorgio de Chirico: «Son più gli enigmi nell’ombra di un uomo che cammina in pieno sole che in tutte le religioni del passato del presente o del futuro». E se Virgilio guida Dante con passo sicuro nel Purgatorio (III 21), il fiorentino che vede «solo dinanzi a me la terra oscura» prova spavento.
Del resto, solo lui nella sua odissea spirituale è una creatura in carne e ossa, e tutti gli altri, non solo Virgilio, sono solo «ombre» di quel che furono in vita, sicché la Commedia è come una immensa recita di spettri, cui non è lecito ombreggiare il suolo.
Persino più sconcertante è ritrovare qualcosa di analogo nell’impresa tecnico-scientifica, vera e propria roccaforte della ragione. Eppure, «sullo studio di ombre si basa la nostra scienza», dice il poeta Ezra Pound nel LXV dei Cantos . Si tramanda che il leggendario Talete (624-548 a.C.), in trasferta in Egitto, fosse riuscito a determinare l’altezza della piramide di Cheope misurando l’ombra da essa formata nell’ora del giorno in cui l’ombra di un qualunque corpo è di lunghezza pari all’altezza del corpo che la proietta. (Per la cronaca, pare che il matematico, intascato il premio del sovrano, si fosse rapidamente eclissato, intuendo che «i potenti non amano la geometria»).
E all’alba della scienza moderna c’è l’impresa di Galileo Galilei che scorge con il suo cannocchiale (1610) montagne e valli sulla Luna, e spiega che le macchie lunari — «i segni bui» che la superstizione popolare vede come i tratti di Caino esiliato sul nostro satellite ( scrive Dante nel Paradiso II 49-51) — sono in realtà ombre dovute alla conformazione della Luna che non è «una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e proprio come la faccia della Terra, è piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti».
Con il certificare che la Luna è solo un’altra Terra, le ombre galileiane mandano in pezzi la cosmologia aristotelica. Questa era già l’intuizione di Giordano Bruno che aveva ribadito (e il cannocchiale non era stato ancora inventato) che «la Luna è cielo a noi come noi alla Luna» e aveva inteso trasformare conseguentemente politica e teologia.
Del resto, nel suo testo latino del 1582, che guarda caso si intitola Le ombre delle idee , aveva definito così la natura mista dell’ombra: essa «prepara l’occhio alla luce» e attraverso di essa «la divinità attenua e manifesta all’occhio offuscato dell’anima quelle immagini che sono ambasciatrici delle cose».
Figlia insieme di tenebra e di luce, l’ombra può annientare chi è schiavo dei sensi (come capiterà allo studioso di Andersen), ma spingere chi sente «l’eroico furore» dell’intelletto alla comprensione dei principi che spiegano i fenomeni del mondo.
La partita aperta dall’ombra — si tratti di arte o di scienza — non è mai conclusa una volta per tutte. Giordano Bruno la chiamava «vicissitudine di tutte le cose»; per noi è semplicemente l’irrequietezza dell’esistenza.