Corriere 11.11.15
La lezione di stile (in tutti i sensi) che Cesare Segre ha esportato nel mondo
di Paolo Di Stefano
Lamentava poco tempo fa Pier Vincenzo Mengaldo che la critica e gli studi letterari italiani hanno (e hanno avuto) scarsissimo seguito all’estero: né Gianfranco Contini né Giacomo Debenedetti, per dire due tra le maggiori figure del secondo Novecento, sono conosciuti come meriterebbero. Non così Cesare Segre, che in Europa (Francia e Spagna in primis), ma anche negli Stati Uniti e in Brasile, ha goduto di grandi riconoscimenti, non solo come filologo ma anche come critico e teorico della letteratura, con curatele importanti, lauree ad honorem, cariche scientifiche internazionali, corsi universitari come visiting professor e (numerose) traduzioni (un’antologia critica in tedesco è del 2004). Non è un caso se il convegno dell’Accademia dei Lincei (di cui era socio nazionale dal 1993) che lo celebra oggi e domani prevede, nella seconda giornata, gli interventi di studiosi stranieri. Tra questi i filologi Francisco Rico dell’Università Autonoma di Barcellona e Philippe Ménard della Sorbona, anch’essi membri dei Lincei.
La notorietà del filologo e critico Cesare Segre è certamente dovuta anche alla impressionante estensione dei suoi interessi, che vanno dalla letteratura medievale alla contemporaneità, ma soprattutto, escludendo l’Italia, toccano aree geo-letterarie e linguistiche diverse, dalla Francia della Chanson de Roland alla Spagna di Cervantes, dalla scena shakespeariana alla Colombia fantastica di García Márquez, dai mondi di Beckett e di Kafka al cosmo di Gombrowicz. Lo conferma Rico, quando fa notare che Segre «era letto e percepito come un maestro in tutta la Penisola Iberica», dove una decina di suoi libri sono stati tradotti. Pur ricordando le opere di scrittura autobiografica ( Per curiosità ) o di invenzione ( Dieci prove di fantasia ), il «gran señor della semiotica» e il «virtuoso della narratologia», oppure i suoi interventi militanti sul Corriere , Rico segnala però su tutto il resto l’eccezionalità del filologo: «È giusto e necessario, e anche logico, che il suo talento si manifestasse in nuovi campi di ricerca e in diversi ambiziosi progetti editoriali, ma Segre è stato prima di tutto un filologo nell’accezione strettamente italiana del termine: uno studioso il cui centro di attrazione e il cui obiettivo consiste nella ricostruzione del testo originale di un’opera stabilendo i rapporti di parentela tra i diversi testimoni». Ovvio che a questo proposito entra in scena il nome di Ariosto, cavallo di battaglia per oltre mezzo secolo, se è vero che Segre cominciò da ragazzo a lavorare sull’ Orlando furioso con lo zio Santorre Debenedetti.
E, oltre a quello che Rico definisce un «perfetto equilibrio tra dimensioni o implicazioni teoriche e accertamenti storici», c’è la prospettiva etica crescente nel suo approccio con la letteratura: «L’etica è presente meno come argomento che come presupposto implicito, anche se la sua portata diventa esplicita nella sezione finale del Meridiano». Il Meridiano, uscito poco prima della morte di Segre, avvenuta nel marzo 2014, è l’ Opera critica che contiene un’ampia antologia di saggi non strettamente filologici.
A proposito del medievista, ecco il Milione , su cui si concentrerà, domani, l’intervento di Ménard dove si ripercorrono esemplarmente i vari studi sul rapporto tra Marco Polo e il trascrittore Rustichello da Pisa: «Dall’esame stilistico condotto da Segre si desume che Marco non ha potuto dettare il suo testo a Rustichello, ma si è limitato a fornirgli la documentazione scritta riservandosi qualche volta di completarla: e nella narrazione, in cui spesso il viaggiatore è citato in terza persona, qualche volta Marco interviene dicendo io, come per riprendere possesso del suo libro». Segre, l’investigatore dello stile dotato della «prudenza dei sapenti», «lucido, penetrante, leggermente ironico». Ménard ricorda, dell’amico Cesare, la «formazione intellettuale eccezionale», i tre grandi maestri. Oltre allo zio Debenedetti, Contini e il linguista Benvenuto Terracini, che aprirono orizzonti diversi al futuro studioso: l’attenzione alla critica del testo, la sensibilità per lo stile, la dimensione teorica grazie alla quale si propose come pioniere di una semiotica letteraria coniugata con la fedeltà alla storia: il che lo distingueva dalle coeve teorizzazioni francesi. Il tutto con estrema discrezione ed eleganza. Senza mai alzare i toni o urlare le proprie convinzioni, come troppo spesso accade invece quando la mediocrità non ha altre armi per imporsi che la ripetizione ossessiva e il narcisismo. Quella di Segre è stata una lezione di stile in ogni senso.