giovedì 8 ottobre 2015

Repubblica 8.10.15
Ultima lite con la minoranza poi parte l’ordine del premier “Teniamo unito il partito”
Sinistra soddisfatta: “In questo modo l’inquilino del Quirinale non sarà scelto da una sola forza”
Sfiorata la rottura tra i democratici sul quorum per eleggere il presidente della Repubblica
di Goffredo De Marchis


ROMA Alla fine, tocca a Matteo Renzi suonare il gong: «Teniamo unito il Pd, non ricominciamo a discutere. Troviamo un compromesso e andiamo avanti». Il patto dentro il Partito democratico è stato vicino alla rottura sul quorum per l’elezione del presidente della Repubblica. Prima dell’intervento di Palazzo Chigi, non bastano due riunioni tra il governo e la minoranza Pd per arrivare a una mediazione. «Se non accettate la nostra proposta faremo a meno della sinistra. I numeri li abbiamo e ve l’abbiamo dimostrato in aula», è l’ultimatum del ministro delle Riforme Maria Eelena Boschi nella stanza del Senato in cui è stata costruita l’intesa interna al Pd. «Noi chiediamo che il capo dello Stato sia eletto con il contributo almeno di una minoranza. E se non c’è l’intesa voteremo i nostri emendamenti», è la risposta di Maurizio Migliavacca, braccio destro di Pier Luigi Bersani e ambasciatore della minoranza. Risolve il braccio di ferro una telefonata a Palazzo Chigi e il via libera del premier. «Non possiamo fermarci adesso, tutti gli sforzi vanno concentrati sulla legge di stabilità», spiega Renzi ai suoi. Così si sblocca l’impasse.
Al tavolo delle trattative partecipano, oltre alla Boschi e Migliavacca, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e l’esponente della sinistra Doris Lo Moro. È una partita giocata sul filo. Il governo tiene duro, forte anche del voto della mattina sull’articolo 17 che definisce i termini dell’approvazione parlamentare dello stato di guerra. Articolo sul quale si manifestano tutte le tensioni dentro Forza Italia, che sceglie di offrire un contributo, in termini di voti, fondamentale a salvare la maggioranza. Si scatena una battaglia nel centrodestra. I forzisti sono accusati dalla Lega. Capo di imputazione: aver dato vita a un «nuovo patto del Nazareno sottobanco. Romani è un bravo muratore, quando c’è una crepa ripara», dice Roberto Calderoli. Risponde il pasdaran antiriforme Augusto Minzolini: «Forza Italia chiede un intervento in Siria e non poteva sostenere una proposta pacifista, legittima ma sbagliata per noi. Rischiavamo di votare un emendamento ideologico e di non mandare comunque sotto il governo». Ma è fondamentale, in quel passaggio, il voto dei verdiniani. L’esecutivo si convince di poter fare a meno della sinistra Pd. Però Renzi sceglie di difendere il ruolo-chiave del partito, di confermare che è il Pd è la «pietra angolare delle riforme», secondo la definizione del capogruppo Luigi Zanda. Soprattutto, di non rimettere tutto in discussione. La trattativa dunque va avanti fino al compromesso che consente di approvare l’articolo 21.
La minoranza propone prima di allargare la platea dei grandi elettori: da 730 a 900 in modo da evitare che il partito di maggioranza alla Camera si possa scegliere sostanzialmente da solo il prossimo capo dello Stato. La maggioranza dem invece chiede una norma di chiusura, ovvero un limite di votazioni dopo il quale basta la maggioranza assoluta dei votanti per scegliere l’inquilino del Colle. E senza allargare la platea. «Penso sia anche interesse del Pd non recitare la parte della forza pigliatutto. Sarebbe un argomento contro di noi al referendum», è uno degli argomenti avanzati da Migliavacca. La richiesta è quella di una garanzia in più, della necessità di convincere almeno una minoranza parlamentare su un nome per la presidenza della Repubblica. Così sarà, ma alle condizioni poste dal governo. Il ministro Boschi infatti sceglie di confermare il quorum dei 3 quinti (circa 435 voti sul totale di 730) per il Quirinale e non di far crescere il numero dei grandi elettori. «Il capo dello Stato in questo modo non sarà scelto da un solo partito», dice Federico Fornaro. Secondo la minoranza, adesso siamo vicini a una soluzione sulla norma transitoria, ovvero l’ultimo ostacolo prima del voto finale. Lì verranno fissati i termini per la legge elettorale del Senato che prevederà una forma di elezione dei cittadini per i senatori-consiglieri.
L’accordo va ancora definito, ma si lavora, finito l’iter riformatore, su 90 giorni per varare una norma nazionale e altri 90 giorni da concedere alle regioni per adeguare i loro sistemi elettorali.