mercoledì 7 ottobre 2015

Repubblica 7.10.15
Giorgio Cosmacini, storico della medicina
“I farmaci sintetici sono più efficaci”
intervista di Michele Bocci


DA Marco Polo fino ai giorni nostri, la storia dei rapporti tra medicina cinese e occidentale è fatta di incontri, scontri, momenti di intensa infatuazione e di freddezze. «Oggi siamo in un momento di convivenza, che però giudico asimmetrica», dice Giorgio Cosmacini, uno dei più importanti storici della medicina e della sanità europei, docente all’università Vita-Salute San Raffaele.
A quando risalgono i primi incontri dell’Europa con la medicina cinese?
«A parlarne per primo fu, tra la fine del 1.200 e l’inizio del 1.300, Marco Polo, che la considerava la più importante dell’Asia. Si tratta di una disciplina di tradizione millenaria. Il Grande libro delle erbe cinesi risale addirittura al 2.737 avanti Cristo. Descriveva 365 medicamenti. E tra questi c’era già l’artemisia». La pianta studiata dal nuovo Nobel per la medicina, Youyou Tu.
«È interessante ricordare che l’artemisia, amarissima, era usata un tempo pure da noi contro le febbri, anche malariche. Un po’ come la corteccia di china».
Quando si diffonde da noi la medicina cinese?
«L’agopuntura e la moxibustione erano già note in Europa nell’Ottocento. E anche l’uso delle erbe. Ho un dizionario del 1854 dove tra i vari tipi di artemisia , sempre lei, c’è anche quella chinensis , cinese. Un utilizzo più diffuso si inizia a vedere comunque nel secondo dopoguerra».
Quali sono stati i motivi dell’ingresso in occidente?
«Sicuramente ha un pregio nei confronti della nostra tradizione medica: dà massima importanza alla soggettività del paziente, da noi ci si basa di più su dati oggettivi. La forza di queste tecniche era che in un certo senso reagivano all’appannamento del rapporto medico paziente dovuto allo sviluppo unilaterale della tecnomedicina. E se leggiamo la definizione di “salute” fatta dall’Oms nel 1948 sembra ispirata di più alla visione orientale quando la identifica nel “benessere fisico, psichico e sociale”».
Il Nobel potrebbe essere un riconoscimento per questa caratteristica della medicina cinese?
«Ho delle riserve. Spesso nell’assegnazione intervengono fattori geopolitici. Se scorriamo i suoi 115 anni di storia, vediamo come prima della Seconda guerra mondiale i vincitori fossero in gran parte d’area tedesca, poi più spesso è toccato ad angloamericani. Adesso arriva la Cina, uno dei Paesi più importanti del mondo. Se dovessi andare in Africa e prendessi la malaria non mi curerei con l’artemisia. L’assegnazione dei Nobel per la medicina ha avuto vari infortuni. Nel 1927 Julius Wagner-Jauregg venne premiato per aver inoculato la malaria al fine di bloccare la paralisi progressiva. Un’idea poi rivelatasi fallimentare».
Quali sono i punti di incontro tra le pratiche cinesi e la medicina occidentale?
«L’agopuntura si basa sulla stimolazione meccanica di punti individuati grazie a meridiani corporei per rafforzare o smorzare l’energia negli organi. Ha un substrato fisiopatologico affine a nostre cognizioni neuroscientifiche. Riguardo alla fitoterapia, i farmaci prima di essere sintetici erano estrattivi dalle piante. Questo è un terreno di ricerca universale».
Quindi i due mondi possono convivere?
«Sì ma in modo fortemente asimmetrico, le discipline cinesi hanno uno spazio minoritario. I farmaci di sintesi godono di una sperimentazione scientifica, prima laboratoristica poi clinica, che fa premio rispetto all’empirismo e all’eclettismo del passato e li rende più potenti».