mercoledì 7 ottobre 2015

Repubblica 7.10.15
La sindrome del Tornado
di Lucio Caracciolo


CHE cosa succederà se andremo a bombardare lo Stato Islamico nei suoi territori iracheni? Sul terreno mesopotamico, nulla o quasi. Non saranno un paio di Tornado tricolori a spostare gli equilibri in una partita che comunque non verrà decisa dal potere aereo.
SUL FRONTE della nostra sicurezza, innalzeremo di qualche grado il rischio di attentati terroristici per opera di cellule jihadiste o di “lupi solitari” in vena di rappresaglie contro i “crociati” che osano mirare al sedicente califfo. Sul quadrante internazionale, gli americani accoglieranno con simpatia e buon umore la notizia, che per loro vale — forse — una nota a piè di pagina.
Quanto al teatro politico domestico, è bastato evocare l’ipotesi dell’attacco per scatenare un effimero tumulto tra fautori e critici dell’intervento, basato sulle preferenze ideologiche e sulle presunte convenienze elettorali di ciascuno, certo non sull’analisi specifica di un tale atto di guerra e delle sue conseguenze.
E allora perché si lascia filtrare alla stampa, salvo poi ridimensionarlo, questo scenario bellico? Molto induce a pensare che si tratti dell’ennesimo episodio di una sindrome tipicamente nostrana, per cui in caso di coinvolgimento dell’alleato americano in un conflitto cerchiamo di guadagnarci la sua benevolenza offrendogli un misurato contributo. Insieme, intendiamo ricordare ai partner europei più spicciativi nell’imbracciare le armi — francesi e inglesi — che anche noi siamo in grado di farlo, malgrado la modestia (e, nel caso dei Tornado, l’imprecisione) dei mezzi a disposizione. Mentre segnaliamo ai tedeschi, così timidi nell’impiego della forza nel marasma nordafricano e levantino, che noi non abbiamo paura di farlo. Sempre che la Bundeswehr sia qualcosa di più di una «aggressiva organizzazione di campeggiatori», per stare alla definizione di un ufficiale britannico.
Se poi mettendo sul tavolo il nostro gettoncino — qualche Tornado sui cieli iracheni — contribuiamo a guadagnarci il riconoscimento della leadership italiana nella kermesse libica, tanto meglio. Ammesso sia un obiettivo invidiabile. Risultato: nella migliore delle ipotesi i nostri eventuali raid in ciò che resta dell’Iraq lasceranno il tempo che avranno trovato; nella peggiore, susciteranno l’eccitata reazione di qualche testa calda jihadista, mentre il campo alleato si dividerà fra cortese indifferenza e sarcasmo.
Visto che siamo la patria del diritto, è suggestivo notare che stando alla citata ipotesi ci limiteremmo a colpire lo Stato Islamico nei suoi dipartimenti iracheni — essendo a ciò autorizzati da Bagdad — mentre quelli siriani non verrebbero toccati in quanto al-Assad non ci darebbe il permesso di penetrare il suo trafficatissimo spazio aereo, dove ogni minuto si sfiora l’incidente fra caccia russi o siriani e omologhi Nato o israeliani. Scelta in sé saggia: perché moltiplicare le probabilità di perdere mezzi e piloti? Ma anche rivelatrice di quanto distante sia il nostro mondo legale da quello reale. Da tempo il confine siro-iracheno è puramente virtuale. Anzi, il “califfo” si fa un punto d’onore di averlo abolito, radicando i suoi domini a cavallo di quella vetusta frontiera coloniale.
Solo una robusta spedizione militare a partecipazione americana, “ stivali sul terreno”, potrebbe sgominare le bande di al-Baghdadi. Ipotesi respinta con orrore dalla Casa Bianca. Obama ha voluto riportare a casa i ragazzi, lanciati dal suo predecessore in improbabili guerre “contro il terrorismo”, con gli esiti che sappiamo. In buona parte ci è riuscito. E ora dovrebbe smentire se stesso per passare alla storia come il presidente che ha rimpantanato la superpotenza a stelle e strisce nei deserti e nelle paludi mesopotamiche? E se anche sconfiggesse le milizie “califfali”, chi insedierebbe al loro posto? Certo non gli attuali regimi di Damasco e di Bagdad, impegnati a difendere i loro residui feudi domestici. L’alternativa sarebbe fra altri jihadisti e altro caos. Dal quale forse emergerebbe un nuovo aspirante califfo.
Non sembra dunque irrealistico lo scenario disegnato su Foreign Policy da Rosa Brooks, autorevole giurista già consulente del Pentagono e di Obama: «Se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo in grado di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di stringere accordi con esso. Passerà poi qualche decennio ed ecco che lo Stato Islamico avrà un seggio all’Onu, se l’Onu esisterà ancora. E tutte quelle atrocità verranno cortesemente ignorate ». Insomma, «se smettiamo di bombardare lo Stato Islamico, forse potrà contenere se stesso più rapidamente di quanto possiamo farlo noi». Un consiglio per chi deve ancora decidere se bombardarlo.