lunedì 5 ottobre 2015

Repubblica 5.10.15
La storia secondo Spielberg
“Leggi condivise per non tornare alle barbarie”
Dopo “Salvate il soldato Ryan” e “Munich”il regista prosegue la sua indagine sul ’900. E con “Il ponte delle spie” ci racconta la Guerra Fredda
intervista di Silvia Bizio


A TRE ANNI DA Lincoln Steven Spielberg affronta un altro capitolo delicato della storia americana in una (vera) spy story ambientata ai tempi della Guerra Fredda. Nel thriller Il ponte delle spie Tom Hanks, alla quarta volta con il regista dopo Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi e Terminal , si lancia in un nuovo ritratto di uomo qualunque la cui integrità è costretta a confrontarsi con la paranoia generale.
Eccolo nei panni borghesi dell’avvocato assicurativo James Donovan che nel 1957, in piena corsa agli armamenti tra Usa e Urss e con l’incubo del conflitto nucleare, accetta di difendere Rudolf Abel, spia russa che ha agito in America per quindici anni. Tra avvocato e cliente (Mark Rylance) nasce un rapporto di stima. Fuori del processo il legale deve affrontare l’ostilità dei colleghi e dell’opinione pubblica, minacce telefoniche alla famiglia, spari contro la porta di casa. Evita all’assistito la pena di morte rendendolo oggetto di scambio con i prigionieri e viene incaricato dalla Cia di negoziare la liberazione del pilota Francis Gary Powers, precipitato oltre la Cortina di Ferro a bordo dell’aereo spia U-2. Il delicato scambio avverrà, non senza complicazioni, al confine tra le due Germanie, sul ponte di Glienicke, poi famoso come “il ponte delle spie”. Spielberg s’affida alla sceneggiatura dei fratelli Coen (con Matt Charman) e riafferma la sua fede nel potere (individuale) della negoziazione e della persuasione. Donovan dopo questa operazione diverrà un grande mediatore e sarà inviato da John Kennedy a Cuba dopo la fallimentare invasione della Baia dei Porci per trattare con Castro. (arianna finos)

NEW YORK ADORO i film sulle spie» confessa Steven Spielberg presentando a New York il suo nuovo Il ponte delle spie : «Amo John le Carré, la saga di James Bond. E soprattutto ricordo le storie che mio padre raccontava in merito alle tensioni fra Russia e Stati Uniti, ai tempi della Guerra Fredda. La storia di Donovan mi sembrava perfetta per il cinema. I fratelli Coen hanno aggiunto alla sceneggiatura di Matt Charman un senso di ironia e un pizzico di umorismo che non sono più assurdi di quanto può esserlo la vita reale».
Signor Spielberg, in quel periodo ci fu un episodio che spaventò molto suo padre.
«Sì. Era andato in Russia poco dopo che l’aereo del pilota Francis Gary Powers era stato abbattuto e la Russia aveva messo in mostra il suo casco e i resti dell’U-2. Lui e tre soci della General Electric erano in fila per fotografare la mostra quando alcuni militari hanno chiesto loro il passaporto. Quando è arrivato il loro turno uno dei soldati ha iniziato a indicare l’U-2 e mio padre, urlando furioso: “Guarda quello che il tuo paese ci sta facendo!”. Non ho mai dimenticato quella storia».
È al suo quarto film con Tom Hanks.
«È indiscutibilmente uno dei più grandi attori del mondo. Eravamo amici prima del college, è il padrino dei miei figli. Per anni il dubbio è stato: possiamo essere grandi amici, poi colleghi e di nuovo amici? Temevamo scontri, non è successo. Sul lavoro facciamo sempre le stesse scelte, perfino sulle battute da tagliare. È come condividete lo stesso cervello».
Com’è stato il set a Berlino?
«Ho girato in tutti i veri luoghi dello scambio: sul ponte, a Berlino Est, vicino al Checkpoint Charlie. Dai tempi di
Schindler’s List cerco sempre di girare dove le cose sono successe veramente, perchè vi tornano gli spiriti del passato e gli attori ne percepiscono la verità. Ai tempi in cui c’era il muro sono stato a Berlino e ho camminato lungo il lato occidentale. Era tragico. Oggi l’unico muro ancora in piedi è quello fra Nord e Sud Corea».
Il film mostra il trattamento diverso dei prigionieri in America e in Russia.
«È una versone accurata: Gary Powers è stato privato del sonno per giorni, volevano informazioni su come funzionavano gli U-2. Pensavano di sfiancarlo interrogandolo ogni due ore. Sono convinto che Powers non ha dato informazioni, è stato ingiustamente screditato. Rispetto alla Russia abbiamo diversi standard: in questo paese gli stranieri illegali hanno gli stessi diritti di ogni americano».
Vuole essere più specifico?
«Noi abbiamo un libro di regole che si chiama Costituzione, e cerchiamo di seguirla. Anche durante le riprese abbiamo visto le ambizioni di Putin in Ucraina, ciò che i russi hanno fatto in Siria con Assad. L’agenda sembra molto vicina a quella dell’ex Unione Sovietica. Non tutti giochiamo seguendo lo stesso libro di regole».
Il tema del film quindi è rilevante ancora oggi.
«Ancora di più. Molti Paesi si creano regole comode per le proprie ideologie e molte sono barbariche. Sono nato dopo l’Olocausto, in 68 anni non ho mai visto questo livello di barbarie, è orrendo e non ci si può abituare. Io voglio che i miei figli ne siano consapevoli: non puoi ignorare quello che succede».
Da genitore ha sbagliato qualcosa?
«Forse avrei voluto togliere tutti i computer ai miei figli 17 anni fa. Togliere internet dai loro telefoni: avrebbero ricevuto le informazioni dai giornali e dalle conversazioni a cena. Vorrei essere stato un genitore più rigido. Siamo sinceri: con tutto l’hackeraggio cibernetico che esiste oggi c’è molto più spionaggio che in tutta la storia dell’umanità».
Un paio di anni fa ha predetto una grande implosione dell’industria cinematografica.
«Non esattamente: ho solo detto che tanti film su supereroi smetteranno di esistere perchè il genere non ha la longevità dei western, che sono esistiti dall’inizio del cinema e per 60 anni, prima di cominciare a morire. Non spero che quei film falliscano. Dico solo che il pubblico inizierà a chiedere qualcosa di diverso».
Il futuro del cinema secondo lei?
«Si adatterà a un pubblico paradossalmente individuale. Piccole storie per piccoli gruppi, in grado di raggiungere ricavi che incoraggino i produttori e i distributori. Oggi guardiamo tutto non solo al cinema e in televisione ma su iPhone e iPad e su ogni dispositivo in grado di connettersi alla Rete. Ogni singola piccola opera, anche un video di 4 secondi, è una forma di autoespressione e di arte. E c’è un pubblico per quello».