martedì 6 ottobre 2015

La Stampa 6.10.15
Il mio amico Ingrao, altro che sognatore”Possibile che la damnatio memoriae sia arrivata al punto da non poter pià dire che è stato un grande comunista italiano?”
di Marcello Sorgi


Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».

Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola linea anche le frange più estremiste del partito?
«Piuttosto era un riconoscimento del ruolo centrale che aveva. Magari, perché no?, Ingrao avrà dovuto limare i suoi convincimenti per sostenere quel ruolo: ciò non toglie che Togliatti avesse scelto lui. E quanto alla questione della democrazia interna, a porla, prima di Ingrao, era stato Amendola».
Amendola?
«Subito dopo il XXII congresso del Pcus, in cui Krusciov presentò il rapporto sullo stalinismo, Amendola accusò Togliatti di reticenza sugli orrori rivelati dal leader sovietico e chiese che al successivo congresso del Pci si potesse discutere apertamente da posizioni diverse e concludere eventualmente con una maggioranza e una minoranza».
Fatto inedito, per un partito fondato sulla regola autoritaria del centralismo democratico. Togliatti cosa rispose?
«Convocò la direzione e ci informò della discussione con Amendola. Poi aggiunse: “Al prossimo congresso, dunque, andremo con mozioni diverse. Io naturalmente presenterò la mia”».
E come andò a finire?
«Togliatti presentò la sua mozione, e nessuno, neppure Amendola, ne presentò un’altra in contrapposizione. Finì all’unanimità, come sempre. Ecco perché lo stesso Amendola, all’XI congresso, quando Ingrao ripropose la questione del centralismo, fu particolarmente duro con lui».
Amendola aveva cambiato idea sulla democrazia interna?
«In pratica si era rimangiato tutto. Dopo la morte di Togliatti, Amendola aveva un peso maggiore nel Pci. Ma la sua idea di fondere in un solo partito socialisti e comunisti, partendo dal riconoscimento del fallimento contemporaneo del centrosinistra e del modello comunista sovietico, era stata bollata come un’eresia. Ingrao, in totale disaccordo, chiedeva che fosse condannata, oppure che fosse riconosciuta legittimità a posizioni diverse».
E fu emarginato per questo?
«Non fu affatto messo da parte. Amendola, è vero, chiedeva che fosse fatto fuori da tutti gli organismi dirigenti, ma io e Berlinguer ottenemmo da Longo che restasse nell’ufficio politico. A essere emarginati, a quel punto, sempre su richiesta di Amendola, fummo noi: uscimmo dalla segreteria, Berlinguer spedito a fare il segretario del Lazio e io il responsabile della stampa e propaganda».
Poi arriva il ’69 e a Ingrao tocca di cacciare dal Pci il gruppo del Manifesto. Magri, Pintor, Rossanda e Castellina erano tutti amici suoi.
«Anche stavolta non fu solo un gesto di obbedienza. Ingrao motivò le sue critiche nella sostanza, criticando come estremiste e pseudo-rivoluzionarie le posizioni assunte dal gruppo del Manifesto: facevano assomigliare i consigli di fabbrica ai soviet dell’Unione Sovietica e contraddicevano la linea democratica della via italiana al socialismo. Voi volete conquistare il potere con metodi che non sono i nostri, obiettava Ingrao».
In termini personali, la svolta dovette costargli.
«Per tutti fu un errore, non solo per Ingrao. Che comunque, nel ’71, andò a fare il capogruppo dei deputati, e con Andreotti, capogruppo Dc, e Pertini, presidente della Camera, concordò il nuovo regolamento parlamentare. Un compromesso di cui si disse che introduceva il consociativismo come regola. Poi arrivano i governi di unità nazionale e Ingrao diventa presidente della Camera dal ’76 al ’79. Il primo del Pci. Questo per dire che non era solo il capo della sinistra comunista».
Nel ’79, però, dopo la fine della solidarietà nazionale, Ingrao lasciò bruscamente la presidenza della Camera. Perché?
«Avvertiva il richiamo della scelta di Berlinguer verso l’alternativa. Una svolta avversata da Bufalini, da Napolitano e da me stesso, e che invece Ingrao sentiva di dover sostenere. Infatti tornò in segreteria, dove poi rimase anche con Occhetto, dopo la morte di Berlinguer».
Occhetto, nato ingraiano, ritrovava così il suo maestro.
«C’è un dettaglio rivelatore raccontato nelle sue memorie da Lucio Magri, che insieme con un altro gruppo di politici e intellettuali di area, dentro e fuori il Pci, aveva preparato un documento per spingere a sinistra il partito. Ingrao si rifiutò di firmarlo e approvò la linea del segretario».
Siamo nell’89, al congresso dell’Amazzonia, dalle immagini della foresta che aprirono i lavori. Poi però, pochi mesi dopo, quando Occhetto cambiò il nome al partito, Ingrao si ribellò.
«Era in Spagna. E non accettò che il segretario non lo avesse avvertito prima della svolta della Bolognina. Ma, a quel punto, la storia del Pci era finita. Ingrao a poco a poco cominciò ad allontanarsi».
Lo perse di vista anche lei?
«No, ricordo che nel ’95 andai a una manifestazione in Campidoglio, a Roma, in cui il filosofo Remo Bodei celebrava gli ottant’anni di Ingrao. C’era poca gente, assenti i dirigenti del Pds, e quasi nessuno di quelli che l’altro giorno lo hanno celebrato nei funerali di Stato. Mi fu molto grato e mi scrisse una bella lettera, che conservo. Anche per questo ho voluto ricordare cosa ha fatto e ciò che ha rappresentato Ingrao per il Pci. Possibile che la damnatio memoriae, in questo paese, sia arrivata al punto da non poter più dire che Ingrao è stato innanzitutto un grande comunista italiano?».