Repubblica 31.10.15
Il sogno di Malala “L’Europa apra il suo cuore ai profughi”
La premio Nobel per la Pace: “I governi facciano di più. So bene quanto sia difficile partire”
di Arianna Finos
LONDRA «Questo è il momento in cui l’Europa deve mostrare al mondo che è pronta a dare grande sostegno ai rifugiati. Dire loro: “ Sappiamo cosa state soffrendo, siamo qui per sostenervi”. Non possiamo ignorarli». Quello di Malala Yousafzai è un grido di dolore di fronte alla sofferenza di chi, come lei, è dovuto fuggire dal proprio paese.
La studentessa ha lasciato il Pakistan quando, a 15 anni, i Taliban le hanno sparato in testa. E la minaccia è ancora alta: il luogo dell’incontro per parlare del documentario “Malala” del premio Oscar David Guggenheim è comunicato solo all’ultimo minuto. La premio Nobel per la pace è sorvegliata da uomini in nero: è una ragazza minuta con un velo porpora, la blusa ricamata, e alte zeppe arancioni sotto i pantaloni larghi. A 18 anni si esprime con il controllo di una leader, ma s’emoziona se le chiedi dell’amore, della scuola. Si addolora invece mentre parla dell’esodo tragico di donne e bambini in fuga, che definisce «una tragedia straziante».
Cosa pensa delle politiche europee sull’immigrazione?
«Noi dobbiamo capire una cosa: queste persone che fuggono dalla Siria e dagli altri paesi lo fanno perché ci sono guerra e sofferenza. Io posso ben capire quanto è difficile per loro partire. E come la vita e l’educazione dei bambini sia a rischio. Noi dovremmo aprire le nostre porte e i nostri cuori. Perché una cosa come questa domani potrebbe accadere a ciascuno di noi. E come vorremmo essere trattati, se fossimo noi a soffrire? Queste persone non possono più vivere nel loro paese e tutti stanno chiudendo loro le porte in faccia. E’ profondamente ingiusto».
Con la sua fondazione, il Malala fund, lei lavora con le ragazze e i bambini rifugiati.
«Cerco di dare un aiuto concreto, sul campo. Parlo con molti leader del mondo e chiedo loro di investire nella cultura, ma non tutti mi ascoltano. Mi dicono che è difficile costruire scuole. Allora ho passato il mio 18simo compleanno seduta sul pavimento di una scuola che abbiamo costruito in Libano per le giovani siriane nei campi profughi della Valle della Bekaa. Volevo dimostrare che non ci sono scuse: se una sola persona, con il sostegno delle donazioni, costruisce una scuola, perché tu governante dici che non si può fare? E ho anche voluto dire ai leader mondiali; dovete concentrarvi su questo. Investire qui, o quella dei giovani siriani sarà una generazione perduta».
Lei ha costruito anche una scuola in Pakistan.
«Nel 2014 abbiano iniziato il primo progetto su ragazzine sfruttate nel lavoro minorile. Abbiamo progetti anche in Libano e in Kenya. In Nigeria stiamo organizzando l’educazione per le studentesse sfuggite a Boko Haram. Molti le hanno intervistate ma nessuno ha chiesto loro “cosa sarà della tua educazione”. Noi le abbiamo fatte tornare a studiare, facendole sentire al sicuro».
Come si combatte l’ideologia degli estremisti?
«Per prima cosa bisogna far sentire ai bambini che non sono soli e marginalizzati, che sono rispettati a prescindere dal colore della pelle e della religione. Questa è la risposta. Bisogna lavorare di più perché ci sono bambini che continuano ad aderire ai gruppi militari. Più la gente è spaventata, emarginata, più si rifugia in questi gruppi».
In Pakistan non tutti sono dalla sua parte.
«La mia campagna è semplice: i bimbi devono andare a scuola. Non voglio che la gente mi sostenga o abbia simpatia per me, ma che sostenga la mia causa e abbia simpatia per i bambini. In Pakistan la gente non si fida dei leader, ma sono convinta che in molti abbracciano la mia causa».
Com’è cambiata la sua vita dopo il premio Nobel?
«Sento di avere molte responsabilità. Prima nessuno la considerava una questione importante. Nel 2014 il premio a due persone che si battono per i diritti dei bambini ha mostrato al mondo che si trattava di un tema importante».
Sogna di diventare il primo ministro del Pakistan?
«Voglio che ogni bambino pachistano possa andare a scuola. Ho pensato che il modo migliore per farlo fosse diventare il premier del mio paese. Ma dipenderà dal voto della gente. E, a prescindere da ogni carica, dare un futuro ai bambini è il mio scopo. Ci sono molti modi per raggiungerlo. Puoi creare una tua organizzazione, incontrare i leader del mondo, diventare tu stessa un politico. Ci sono molte scelte davanti a me. Ora sono concentrata sulla mia fondazione. Sento che è la giusta piattaforma per sostenere le ragazze come me. Io non cerco la celebrità ma voglio essere la loro voce: dire al mondo “ascoltate questa ragazza della Siria, del Pakistan, della Nigeria”. Essere anche la voce di questi bambini e bambine in fuga».