sabato 31 ottobre 2015

Repubblica 31.10.15
Un’altra avventura dopo Vietnam e Iraq in America torna l’incubo dell’escalation
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON UN piccolo passo per i militari, ma un grande balzo nel vuoto per la nazione. Gli Stati Uniti scendono in prima persona nel cratere della guerra in Siria. Quei «meno di 50 soldati» delle Forze Speciali che metterano i loro stivali, a nome e per conto del governo Usa, nella polvere attorno alla città caposaldo dell’Is, Raqqa, per ordine di Barack Obama, sono tatticamente ben poca cosa, fra le migliaia di combattenti che si massacrano sotto le più diverse bandiere nel crogiolo arabo. Ma sono il primo gradino di un’altra scalata verso l’ignoto.
Ancora una volta quella Repubblica che il suo creatore e primo presidente, George Washington, aveva esortato a limitare al minimo ogni alleanza militare e ogni legame politico con il resto del mondo nel suo discorso di addio nel 1797, si scopre risucchiata irresistibilmente nel gorgo di avventure militari che sa di non poter controllare e, soprattutto, non sa come finire.
Dalla “Dottrina Monroe” che nel 1823 proclamò il diritto americano a intervenire nella propria sfera continentale di interessi, all’intervento decisivo nelle due Grandi Guerre mondiali, alla Corea, al Vietnam, alla spedizione punitiva in Afghanistan, alle “Bush Follies” in Iraq fino a questo piccolo grande dispiegamento di “consiglieri e assistenti” nella Siria settentrionale, il vortice della realtà internazionale, la spinta di un idealismo interventista spesso invocato per nascondere il cinismo degli interessi, e la inarrestabile dinamica dei nuovi, micro conflitti del XXI secolo ha portato una nazione istintivamente e storicamente isolazionista alla contraddizione dell’interventismo globale e continuo.
Sembra impossibile ricordare oggi, mentre i soldati americani, dunque non “contractors”, agenti dei servizi, freelance della guerra, si preparano a rischiare la vita per ordine del Comandante in Capo accanto a curdi, ribelli cosiddetti “moderati”, bande irregolari, mercenari di fluide e incomprensibili lealtà tra Raqqa e Kobane, che due generazioni or sono, nel 1939, a pochi mesi dall’attacco giapponese a Pearl Harbour, il Congresso americano sfiorò, con un solo voto di differenza, la dissoluzione di fatto dell’Esercito. E che nel dicembre del ‘ 41 mentre i bombardieri e le aerosiluranti di Yamamoto affondavano corazzate alle Hawaii, la oggi onnipotente US Army contasse appena 100 mila uomini in uniforme, costretti ad addestrarsi con fucili di legno.
Ma anche allora, come ieri, quando il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest si è dovuto arrampicare sul podio della sala stampa per negare l’evidenza e per convincere l’America che quei 50 non sarebbero stati inviati per combattere ma solo per «assistere e consigliare», la spirale degli interventi armati, che più tardi sarebbe stata chiamata “escalation” cominciava sempre da un’apparente riluttanza. Fu soltanto l’invasione dell’Iraq, di tutte le azioni militare americane nel mondo la più ingiustificabile, a essere accompagnata inizialmente dall’entusiasmo popolare e le conseguenze sono ancora visibili.
Entusiasmo che sicuramente manca per questa microescalation della presenza Usa, «cerotto su una ferita sanguinante», secondo Frederich Hof del Consiglio Atlantico, nel cuore più nero della lunga mezzaluna araba dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico e spiega le dimensioni quantitative di questa spedizione. Nessuno dei due partiti maggiori, certamente non i Repubblicani che ripetono nei loro dibattita il mantra, anch’esso falso, dell’isolazionismo, non i Democratici, guidati da quella Hillary Clinton che sovraintese all’intervento in Libia per assecondare Sarkozy, come lo stesso Obama, ha alcun appetito per una vera guerra campale in Siria. Da qui, il compromesso, fra i militari che avevano disegnato piani più ambiziosi di operazione e il presidente, sconvolto dal pensiero di finire il proprio mandato con una riedizone in scala tascabile dell’escalation di Bush in Iraq o di Johnson in Vietnam che da oltre un anno, dal suo discorso alla nazione del settembre 2014, aveva promesso di non spedire stivali americani sul terreno.
Il difetto evidente di questa microspedizione che è comunque una chiara svolta, è di avere tutte le caratteristiche di un intervento americano diretto senza promettere, e certamente senza garantire, alcun successo. Quei soldati per quanto superad-destrati, superarmati, basati ancora ufficialmente nella base di Erbil, in territorio curdo, non lanceranno assalti sulle “Colline degli Hamburger” come nei mattatoi vietnamiti, ma potranno morire, anche soltanto difendendosi. Già in una operazione di salvataggio di ostaggi, la scorsa settimana, un sergente americano è stato ucciso.
Ma l’illusione di restare fuori almeno dalla Siria, tenendosi ad alta quota come gli aerei lanciamissili, è finita con l’intervento di Putin che ha demolito la titubanza di Obama. È una buona ragione strategica, quella che ha spinto alla decisione di inviare il micro corpo di spedizione, è una comprensibile scelta politica purché i comandi e i dirigenti politici russi e americani riescano a “deconflittualizzare” (è l’ultima parola di moda nello slang dei think tank a Washington) la pericolosissima presenza contemporanea di forze armate delle due nazioni nello stesso cortile. Ma ci sono sempre state buone ragioni politiche e militari per salire i gradini della “escalation”, prima di precipitare nel vuoto dalla scala.
Anche oggi la spirale dell’intervento armato comincia con un’apparente riluttanza Nessun entusiasmo tra repubblicani e democratici, eppure il cambiamento è chiaro