sabato 24 ottobre 2015

Repubblica 24.10.15
Denis Verdini
“Sarò presentabile anche per il Pd”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA Tre Marlboro rosse di fila, praticamente senza respirare. Poi Denis Verdini si lascia andare, in un angolo del cortile del tribunale: «Che fatica questo interrogatorio, ma combatto. In questo processo non c’è davvero un cavolo, mi creda. Però mi devo difendere, l’ho sempre fatto. E d’ora in poi lo farò su tutto». In effetti l’ex coordinatore berlusconiano ha bisogno di uscire indenne da questo corpo a corpo con la giustizia. Inevitabile, per chi bussa alla porta del Pd, ha un piede e mezzo nella maggioranza di Matteo Renzi e sogna un posto al sole nel partito della Nazione: «Certo che lo faccio anche per una questione di “presentabilità” politica, come la chiama lei. Ed è ovvio che in questa fase sono esposto. Ma, mi creda, lo faccio soprattutto per una questione di onorabilità personale». Bisogna rientrare in aula, la prima pausa concessa dal tribunale è già finita. «Non mi sono mai sottratto ai giudici. Politica e giustizia restano, per me, due binari separati».
È arrivato a piazzale Clodio poco dopo le nove. Completo blu, cravatta tendente al viola, bretelle nere. Tra i suoi legali c’è il professor Coppi, a cui indirizza lo sguardo con ostentata noncuranza prima di rispondere ai quesiti più delicati. A un certo punto incrocia il faccendiere Flavio Carboni, anche lui imputato per la P3, descritto come un simpatico guascone: «Scusi, signor capo del governo»..., scherza il faccendiere. E Verdini: «Se lo dici di nuovo — sorride — ci arrestano a tutti e due...».
Vuole conquistare i giudici. Come? «Spiego la politica, che è il mio lavoro». Racconta la dura attività da Mister Wolf di Fivizzano. Sangue e merda, diceva Rino Formica. «Fare il politico è una cosa tosta, c’ho sempre la gente addosso... Godo negativamente dell’immagine dell’uomo dal carattere forte, che manda a quel paese e si fa rispettare. È il mio linguaggio, non lo filtro. Parlavo con tutti, bastava una telefonata. Tutti avevano bisogno di me». Costruisce l’immagine di un potente spregiudicato che decide e magari calpesta, ma che non ha certo bisogno di una banda di millantatori: «Non per fare l’arrogante, ma è il mio mestiere scontentare qualcuno. Sa, lui diceva di sì a tutti, poi intervenivo io». E alza il dito verso l’alto, tanto che i giudici domandano: «Lui chi?». «Lui, Berlusconi».
A pranzo siede al ristorante con Coppi. Poi torna di fronte ai giudici. Gesticola molto, studia i tempi come fosse a un talk: «Visto che in sala ci sono giornalisti mi lasci dire... ». «Si rivolga a me!», lo riprende il pm. Per smorzare la tensione il neorenziano cita il “Quarto potere” di Orson Welles, poi Guicciardini. Ogni tanto la discussione vira verso altri dossier. La premessa è standard: «Di questo sto discutendo in un altro processo». Una, due, tre volte. Quattro, come i suoi guai giudiziari.