Repubblica 21.10.15
Il racconto
Appena 12 km di distanza, ma la stessa angoscia tra Ramallah e Gerusalemme
Arabi e israeliani uniti nella paura “L’Intifada distrugge le nostre famiglie”
di Fabio Scuto
GERUSALEMME . Tra il quartiere arabo di Beit Hanina – a nord della città verso Ramallah – dove vive la middle class araba della Città Santa e quello ebraico di Arnona, dove abita la media borghesia gerosolimitana, ci sono 12 chilometri. Fatte salve le differenze stilistiche, le palazzine – forse anche per quella pietra bianca di Gerusalemme usata per le coperture esterne degli immobili e obbligatoria fin dai tempi del mandato britannico – che ne definiscono il profilo urbano si somigliano. Come si somigliano in questi giorni le ansie delle famiglie che le abitano. Tv e radio in ebraico o in arabo con i loro continui online, filmati di scontri e di attentati, diffondono quell’inquietudine che si è impadronita delle strade di Gerusalemme, a Est come a Ovest. Scuole, mercati, stazioni di bus, shopping center. L’imprevedibile – com’è accaduto – può succedere ovunque.
Allarmi veri e falsi in questi giorni si mescolano ma è l’elicottero in volo sulla città a dare il senso che qualcosa di grave è accaduto. «Quando lo sento il battito del cuore mi arriva in gola e penso subito mio figlio Fadhi », racconta Leila, una dentista palestinese che abita con Ismail, il marito architetto, a Beit Hanina. Fadhi, il loro unico figlio, è la loro ansia. Ha 15 anni ed è probabilmente un “lanciatore di pietre”. «Sta sempre su Internet, traffica sullo smartphone, ci dice un sacco di bugie », si sfoga la madre seduta nel moderno salotto borghese con il maxi-schermo. Ma Leila racconta di più, sono venuti meno anche quei legami familiari che in un ambito sociale tradizionale e conservatore come quello palestinese sembravano saldi. Dice a voce bassa, quasi con vergogna: «Non rispetta più nemmeno il padre, sbatte la porta, entra e esce quando vuole».
Sono migliaia le famiglie di Gerusalemme che vivono nella paura che i loro figli possano essere accoltellati da un “ lupo solitario” palestinese, oppure uccisi, feriti o arrestati durante scontri con l’esercito israeliano. Nella parte araba della Città Santa i genitori li vedono uscire al mattino di casa e non sanno se stanno veramente andando a scuola, con gli amici del “muretto”, protestare davanti a un checkpoint o peggio attaccare qualcuno con il coltello. Ogni famiglia palestinese sa che se il figlio sarà fermato, arrestato o coinvolto in qualche fatto grave la loro casa sarà demolita, i fratelli o i genitori verranno arrestati, verranno schedati come “ pericolosi” e in un futuro potranno anche perdere il diritto di residenza a Gerusalemme e essere espulsi verso Gaza o la Cisgiordania. Questi giovani – slegati da Hamas e da Fatah – rappresentano la “generazione perduta di Oslo”, secondo una felice definizione della giornalista e scrittrice Amira Hass: non hanno lo Stato indipendente promesso, non partecipano alla vita politica, non hanno una leadership credibile a cui guardare, non hanno né futuro né lavoro. Renata e Ariel, con i loro figli Ariela di 13 anni e Gilad di 10 abitano ad Arnona, all’altro estremo della città, sono 12 chilometri esatti dalla casa di Leila e Ismail. Il condominio bianco nel quale abitano si affaccia sopra i quartieri arabi di Abu Tor, Silwan e il famigerato Jabal Mukaber. Negli ultimi giorni i loro figli sono andati in classe poco o nulla. «Il ministero del Tesoro non stanziava i fondi per la security fuori delle scuole», spiega Ariel, «e con quel che sta succedendo era meglio tenere a casa i ragazzi». «Le volte che sono andati a scuola, poi è sempre successo qualcosa ed io o il padre siamo corsi a prenderli con la macchina», interviene Renata, «e poi comunque stavo con l’angoscia ». I ragazzi, tablet in mano, non sembrano interessati. Invece no. Gilad racconta che a scuola l’altro ieri hanno fatto training simulando un attacco contro l’edificio, certo non una lezione come un’altra per un ragazzino di 10 anni. Ariela è invece più scocciata che preoccupata. Quel piccolo margine di autonomia dalla famiglia che si lascia agli adolescenti è stato spazzato via dalla paura per “l’intifada dei coltelli”. I ragazzi accettano la situazione ma sembrano inconsapevoli delle angosce dei genitori. Da venerdì scorso il checkpoint dell’esercito che “filtra” l’uscita dal confinante quartiere di Abu Tor è ben visibile dalle finestre perché è all’angolo della strada. Road bloc di cemento, i soldati sotto l’ombrellone di giorno per il sole ancora cocente durante il giorno, le fotoelettriche illuminano invece la notte.
«Hanno portato la guerra sotto casa nostra, guarda…», dice amareggiato Ariel. «Quanto durerà… come andrà a finire?», chiede Renata, cercando una risposta impossibile da dare.